QUADERNO N. 41

INDICE

INDICE


Introduzione


Lettera di Gianni Alasia


Silvia Fezia: piccole storie





Antonio Gramsci




Don Lorenzo Milani




Ernesto Guevara







Lettere d’amore


Rosa Luxemburg sul dolore degli animali


Ernesto Che Guevara – Ai genitori


Ernesto Che Guevara – Ai figli


Ernesto Che Guevara – Alla figlia Hildita

Frei Betto – Lettera a Che Guevara


Frei Betto – Dieci consigli per i militanti di sinistra


Andrè Gorz – Non voglio vedere la tua morte (alla moglie)


Quaderni Cipec


Attività Cipec

Introduzione


Questo quaderno apre il quindicesimo anno di vita di questa pubblicazione.

Quaranta numeri non sono pochi e sarà utile un giorno tentare un bilancio della nostra piccola esperienza che ha fatto conoscere tante pagine sconosciute o dimenticate della storia locale.

È indiscutibile che, nella moderata e cattolica provincia di Cuneo, la sinistra politica e sindacale -cui è dedicata la maggior parte dei quaderni- non rappresenti la maggioranza della popolazione né a livello politico né a livello culturale.

È altrettanto ovvio che questa storia abbia dato, però, pagine di grande importanza, abbia segnato vite di militanti la cui esistenza è stata caratterizzata da speranze, sogni, sacrifici, umiliazioni, vittorie e sconfitte (queste molto frequenti negli ultimi decenni, ma tanto dolorose anche dal 1948 agli anni ’50).

Altri documenti, altre storie, altri percorsi di vita avranno spazio su queste pagine se l’Amministrazione provinciale deciderà di continuare il sostegno che ci ha dato a cominciare dal 1995.

Questo numero si riferisce a tre grandi, anche se tragici anniversari, a tre grandissime figure che hanno segnato la storia del nostro paese e, almeno in un caso, del mondo: Antonio Gramsci, Ernesto Che Guevara e don Lorenzo Milani.

L’importanza e il significato del loro impegno e l’attualità della loro opera sono largamente evidenziati nei singoli scritti.

Un socialismo diverso, un dramma umano profondo, l’analisi della cultura e delle vicende italiane che tanto ha influito sulla politica e sulla cultura italiana, che ha superato i confini nazionali (Gramsci è l’autore italiano più tradotto nel mondo), che molto avrebbe potuto dare davanti all’involuzione del movimento comunista già evidente nella seconda metà degli anni ’20.

Un cristianesimo legato alla scelta per gli ultimi, per i poveri; una scelta di vita conseguente che tanto, per la sua radicalità, ha influito sul movimento giovanile degli anni ’60 e su scelte spesso non contingenti. Il suo linguaggio, quasi unico e presente in tutti i suoi scritti è analizzato specificamente in un saggio, purtroppo troppo breve, frutto di una lunga e corposa tesi di laurea che sarebbe interessante conoscere nella sua interezza.

In Guevara si sommano la grande stagione internazionalista e rivoluzionaria, la capacità di critica del socialismo realizzato, il ritorno ad una lettura umanista e volontarista del pensiero marxista, il sacrificio estremo che porta ad una morte eroica, anche se solitaria.

Sempre del Che sono alcune lettere “d’amore” che pubblichiamo in appendice, accanto ad altre lettere in cui l’amore si presenta sotto mille volti: quella di Andrè Gorz alla moglie malata, “prologo” di una drammatica morte comune e quella di Rosa Luxemburg in cui la sofferenza di un animale diviene metafora della più ampia sofferenza universale.

Sul tema, quanto mai attuale, ma ignorato del dolore degli (altri) animali è interessante e stimolante il testo: Un po’ di compassione, di Rosa Luxemburg con testi di Franz Kafka, Elias Canetti, Joseph Roth e di una ignota lettrice, (Milano, Adelphi, 2007).

Le prime pagine, prima dei tre “anniversari”, sono dedicate ad una figura locale, quella di Silvia Fezia, anziana signora, quanto mai attiva, bovesana per “elezione”, di cui riportiamo alcuni brevi scritti: una memoria sul clima politico-culturale dell’immediato dopoguerra, certo molto diverso da quello odierno, una valutazione sull’artigianato locale, un giudizio sul nostro precedente quaderno intitolato Comunisti a Boves, colmo di rispetto e di interesse per posizioni politiche che Silvia ha conosciuto anche se non condiviso.

Buona lettura e arrivederci al quaderno 42 che speriamo non sia l’ultima di questa nostra pubblicazione.

Tenteremo anche, pur nella difficoltà e nelle ristrettezze e di tempo e di “soldi” a riprendere una iniziativa culturale (dibattiti, seminari, convegni…) che ci ha caratterizzati per lungo tempo e che, purtroppo, “in mille faccende affaccendati” abbiamo trascurato negli ultimi tempi.

La breve lettera, colma di amicizia e di affetto (ricambiato), di Gianni Alasia in occasione del quaderno a lui dedicato per i suoi ottant’anni, è interessante e merita di non rimanere nei nostri cassetti, ma di essere conosciuta.

La pubblichiamo oggi, in occasione della pubblicazione dell’ultimo testo di Gianni: Nelle verdi vallate dei tassi: la libertà, Torino, Visual Grafika, 2008, bella favola sul periodo resistenziale, colma di attualità e (nonostante tutto) di speranza.

Sergio Dalmasso

Torino, 28 dicembre 2006.


Per Sergio Dalmasso e compagne/compagni


Vi ringrazio di cuore per volere ricordare i miei 80 anni e per l’intervista.

È cosa che mi commuove e mi fa molto piacere. Non lo nascondo senza falsa modestia. Credo nella sua utilità; diversamente non l’avrei rilasciata.

Non sono certo Le confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo.

Ma il nostro “secolo breve” è pur denso di avvenimenti che offrono tanti stimoli di riflessione anche nelle piccole cose. E poi, insomma è anche la mia vita e la vostra, come dice Sergio.

Sono convinto che la vita di ogni uomo, nel positivo e negli errori, contiene sempre qualche utile insegnamento e così apprezzo molto le interviste che Sergio riporta nelle pubblicazioni del CIPEC.

Grazie di cuore. Vi abbraccio.


Gianni Alasia

Silvia Fezia: piccole storie


Ho conosciuto Silvia Fezia durante uno dei suoi consueti e lunghi soggiorni a Boves.

Signora anziana (è un complimento), colta, con tante letture, molti riferimenti culturali, piena (oggi non è cosa comune!) di idee, speranze, progetti, anche di rabbia per tanti aspetti negativi, per la passività che coglie attorno a sé, per iniziative che non si attuano o vengono attuate solo parzialmente o male.

È forte in lei il desiderio di “fare pedagogia”, di insegnare, di trasmettere idee e valori che le sembrano ovvii e che non comprende perché non vengano attuati.

Le ho chiesto di raccontare, per questi quaderni, la sua vita, il periodo della guerra, il suo interesse per la politica in anni fervidi di idee e speranze, il suo lavoro, il perché del suo essere finita a Boves per parte dell’anno. Testimonianza significativa di una vita non “in prima linea”, ma di una attenta osservatrice di quanto accaduto e di una formazione, non solamente scolastica, non comune.

La risposta è stata che la sua vita non era importante, che altri erano i nodi da sottolineare: le scuole professionali, la mancanza di manualità - soprattutto di corporeità - nei giovani di oggi, in particolare la questione dell’artigianato locale che nessuno segue a livello sindacale e politico.

Gli artigiani di Boves hanno una professionalità introvabile in altri luoghi, ma mancano di “coscienza” anche di corporazione, non sono organizzati, vivono in individualità che rischiano di non valorizzare le loro capacità e di disperdere conoscenze e storia delle loro professioni.

Abbiamo ricevuto, quindi, tre scritti che ci pare utile far conoscere: sul clima intellettuale, politico, morale ed esistenziale del dopoguerra, sulle commoventi testimonianze dei/delle comunisti/e di Boves pubblicate in quaderni precedenti, sul tema, appunto, dell’artigianato, quasi un rimprovero per l’assenza di interesse e di impegno che le pare inspiegabile in partiti, sindacati o nelle sinistra locale (che quasi non esiste).

Li pubblichiamo come piccola testimonianza di un percorso culturale ed esistenziale che ci pare significativo e che varrebbe la pena di meglio conoscere.

s. d.

PICCOLE STORIE DI ORDINARIA UMANITÀ.


Silvia Fezia


C’era una volta la guerra: era la seconda guerra mondiale e noi italiani facevamo, purtroppo, parte di quel mondo. Non era solo una guerra tra nemici, occupanti e occupati, era anche una guerra civile e tutte e due queste guerre erano combattute in quasi tutto il territorio nazionale. Senza scampo.

Finalmente la guerra guerreggiata finì, ma rimasero le ferite incancrenite da anni di distruzioni e di morti. La guerra civile è la più dura da superare, eppure con fatica ce l’abbiamo fatta, malgrado sangue, dolore, ingiustizia e tanta confusione. Malgrado le ferite di chi ha vissuto quelle vicende, ferite di cui rimarrà sempre il segno, un segno, però, che non deve indurre a chiedere vendetta o a riaprire i conti con la giustizia per processi di qualsiasi tipo, ma un segno che deve indurci a dire: Mai più e a chiedere pace per costruire un futuro umano per tutti.

Questa è stata la forza del nostro indescrivibile dopoguerra: la speranza, che faceva fiorire anche qualche momento bello fra l’immensità delle macerie.

Voglio ricordare alcuni di questi momenti, fioriti sul terreno tormentato della nuova democrazia.

Chi ricorda ancora i COS (Centri di orientamento sociale) fondati da Capitini?

Ne ricordo uno a Firenze, nel cortile d’una fabbrica, gentilmente concesso, con panche rabberciate, pieno di gente del rione, d’ogni ceto.

L’argomento della riunione, come il conferenziere, erano proposti e votati da pubblico. Gli organizzatori passavano con il cappello a raccogliere dal pubblico i soldini per i manifesti della riunione successiva: intellettuali di alto livello, invitati, partecipavano con entusiasmo a questa nuova esperienza: ricordo per esempio la partecipazione di Calamandrei e di Luigi Russo. Naturalmente le partecipazioni erano gratuite.

Ricordo anche la l’esperienza particolare di una sezione del PCI in un rione borghese di Firenze.

C’era settimanalmente un discorso di “personalità” comuniste, seguito da libera discussione. Regolarmente un ingegnere democristiano confutava, ascoltato, l’oratore di turno e, se questo rispondeva con garbata sufficienza, era silenziosamente riprovato dai compagni di base. Ma c’è di più, se tardava, loro andavano ad invitarlo a casa. Che cosa facciamo se non c’è l’ingegnere? Infatti, senza discussione l’incontro perdeva di gusto e di significato. Ancora dopo molti anni, l’ingegnere ricordava ai suoi amici comunisti quel tempo ormai chiuso per tutti.

In quella stessa sezione fu anche invitato il professor Garin, umanista di livello internazionale, per dire Perché non sono comunista.

Aveva ricevuto da parte borghese espressioni di preoccupazione e auguri, come se dovesse entrare inerme nella gabbia dei leoni. Ci entrò: la sala straripava di pubblico, arrampicato fin sui finestroni. Ci fu una lunga, serena e vivace discussione. Una serata indimenticabile per tutti i presenti. Ricordata così: indimenticabile.

Forse sono solo una vecchia sentimentale, fuori corso come vecchia moneta inutile, ma vorrei tanto che tornasse quel clima, anche intemperante, ma vivo.

Ora la nostra gente non si incontra più per discutere e risolvere o almeno comprendere i grandi problemi del mondo che la coinvolgono ed anche i piccoli problemi quotidiani. Certo non l’incoraggiano i politici che sorvolano sui problemi quotidiani perché, secondo loro, troppo piccoli e che dai grandi problemi finiscono sempre con lo scivolare nella fanghiglia del pettegolezzo politico o addirittura personale. Ci vuole altro. Ma ci vuole anche la partecipazione critica dei cittadini, altrimenti la democrazia non c’è.

Nei nostri gruppetti di studenti antifascisti, sognatori inesperti, qualcuno pensava che, se gli italiani avessero trovato il coraggio almeno di guardarsi negli occhi (poi di parlarsi), il fascismo sarebbe caduto. Idea quanto mai utopistica. Però, resta vero che senza la buona volontà e il coraggio dei cittadini di guardarsi negli occhi e di parlare, di discutere, la democrazia vera muore.

COMUNISTI/E A BOVES.


Silvia Fezia


Le testimonianze sono molto vere. Anche la loro disperata tristezza di fondo è molto vera, come la loro fedeltà agli ideali, malgrado tutto.

Montanelli ha scritto che i comunisti, anche quando lasciano il partito, rimangono comunisti, come i preti spretati rimangono preti.

Gli avversari lo sapevano bene e mentre aprivano le porte e onoravano chi passava nelle loro file, bastonavano volentieri chi rimaneva se stesso, da solo, senza le mura del PCI a proteggerlo, almeno formalmente, apparentemente.

Perché non credo che il PCI si sia mai compromesso a difendere qualche suo piccolo iscritto, figurarsi un transfuga!

Penso che anche i socialisti non fossero più premurosi al riguardo.

Non ho accorati rimpianti per una stagione che non c’è più… e che ci costringe a cercare barlumi di speranza frugando fra i rifiuti, alla ricerca di inattuali verità.

Ci sono state figure di politici più o meno belle (o brutte). Ma non è spaccando un capello in quattro in un salotto che si risolve qualcosa. Non è stato quello il momento dei grandi politici, ma delle grandi speranze, che, frugando fra i rifiuti non si trovano.

Bisogna aiutare la nostra gente a ritrovare la speranza, aiutandola a risolvere i molti problemi del nostro paese. Ci vuole coraggio perché, quando va bene, troviamo indifferenza e ingratitudine, quando va male, calci in faccia.

D’altronde, anche se quelle esperienze fossero state tutte valide, con l’avvento dell’unità europea, del villaggio globale, delle grandi potenze emergenti, delle incalzanti scoperte scientifiche, sarebbero monete fuori corso.

Camminiamo nel buio della notte alla ricerca del barlume di un’alba che non si vede e siamo tutti in grande confusione.

Dobbiamo, malgrado tutto, lavorare umilmente per la vita.

ARTIGIANATO: RIFLESSIONI E PROPOSTE.


Silvia Fezia


L’artigianato moderno è nato e si è sviluppato nelle città che andavano risvegliandosi dal lungo sonno medioevale. Era il lavoro libero di liberi cittadini.

Era la produzione di beni che alimentava i commerci e le attività bancarie, produzione che doveva essere competitiva sui mercati europei e mediterranei.

La ricchezza comportava nuove esigenze di lusso e di cultura e così certe botteghe si trasformavano in laboratori d’arte di valore inestimabile. Più tardi saranno i signori delle città e i sovrani a promuovere laboratori d’arte e poi manifatture sia per il prestigio personale sia per quello della città o del regno.

All’attività della bottega partecipa il padrone che guida il lavoro dei garzoni apprendisti, i quali apriranno poi la loro bottega o diverranno i soci del padrone stesso.

Con il tempo, con il potenziamento delle attività economiche, si svilupperà la figura del salariato subordinato, spesso riottoso, mentre la complessità di certe produzioni (per esempio la cantieristica) richiederà l’associazione di più artigiani sia della stessa arte che di arti diverse (arte era chiamata l’associazione che riuniva chi esercitava la stessa professione).

Lo sviluppo dell’economia portò poi ad entità produttive di maggior grandezza rispetto alla bottega, cioè alle manifatture con produzione di diversa qualità: dalla regale alla popolare.

Questo sviluppo nella continuità viene drammaticamente interrotto e messo in crisi irreversibile dalla rivoluzione industriale, protagonista preponderante non solo dell’economia, ma anche della vita sociale e politica dell’ ‘800 e del ‘900.

Il lavoro parcellare a catena, fatto accanto alle macchine, non richiedeva un lungo addestramento, né una robusta forza fisica, perciò bastavano donne e bambini, pagati pochissimo e alla totale mercé del padrone. All’uomo erano destinati quei settori in cui, malgrado la macchina, era ancora richiesto un certo sforzo e una certa specializzazione.

L’artigianato artistico, intanto, uscito dalla bottega, era passato a laboratori e manifatture a servizio dei mecenati aristocratici, mobilitandosi in Arte, finché nell’ ‘800 gli artisti rivendicheranno la loro libertà creativa, vissuta nei loro studi, sostenuti dalla nuova borghesia, individualista, intraprendente e ricca. L’artigianato artistico vero e proprio, come nel passato, tenderà sempre ad assimilarsi all’arte.

Il vecchio artigiano, in possesso di un mestiere, appreso nella bottega e perfezionato con l’esperienza, è ormai ridotto a moneta fuori corso. Il suo lungo addestramento risulta inutile e costoso, il suo spirito autonomo e creativo è controproducente nella fabbrica dove il lavoro parcellare a basso costo non richiede tirocinio, personalità e senso di responsabilità verso il manufatto da parte di chi ne ha seguito la lavorazione dall’inizio fino al prodotto finito.

Molti mutamenti sono avvenuti nella fabbrica nel corso degli anni, soprattutto nelle condizioni di lavoro e nella dignità della persona, ma solo negli ultimi decenni, sotto la spinta dell’evoluzione delle tecniche sempre più sofisticate e di una concorrenza mondiale sempre più accanita, è stata la collaborazione del lavoratore richiesta e incentivata, sia per ridurre i tempi di lavorazione e incrementare la produttività, sia per migliorare qualitativamente la produzione.

Per ora si tratta di casi d’avanguardia (che, però, potrebbero preludere ad un salto di qualità, almeno per qualche aspetto del lavoro industriale).

Per ora, l’operaio e il tecnico della fabbrica rimangono subordinati mentre l’artigiano, anche singolo, è imprenditore ed eventuali dipendenti hanno con il “padrone” un rapporto di collaborazione ben diverso che nell’industria: il primo, anche nella specializzazione, è sempre uniforme, il secondo ha sempre delle particolarità.

Abbiamo detto che l’artigiano è imprenditore, infatti sta a lui promuovere la sua ditta sul mercato, fissare i prezzi dei manufatti ed esserne responsabile sia verso il cliente che verso le leggi. Sta a lui organizzare la sua azienda, i processi e i tempi di lavorazione. Spettano a lui l’amministrazione dell’azienda e i rischi d’impresa.

Attualmente la preparazione di operai specializzati e tecnici di medio livello avviene in scuole ed istituti che danno ai giovani una preparazione di base per l’industria, che non deve quindi sostenere direttamente tutto il carico, come avviene invece nelle botteghe artigiane. Solo qualche ramo dell’artigianato può usufruire in parte di questi insegnamenti, rimanendo però sempre determinante il tirocinio di bottega.

Sono le botteghe che devono “dirozzare” gli apprendisti e sono obbligate per legge a pagarli come “operai finiti”, mentre sono ben lontani dall’esserlo, anzi costituiscono addirittura una perdita di tempo per chi li addestra e li istruisce. Questa è una delle cause della crisi dell’artigianato.

Infatti, così la legga assimila l’attività artigianale a quella industriale, ignorando e non solo in questo caso, la radicale diversità delle situazioni.


Poniamoci una buona volta chiaramente il problema: Vogliamo far morire l’artigianato o lo vogliamo far vivere?

Le autorità competenti o gruppi di studio dovrebbero prendere in seria considerazione la situazione di questo settore, ignorato e incompreso, prendendo atto della sua importanza e indicando la strada per un riordino e una moderna ripresa di tutto il settore.

Io qui mi limito a considerare qualche problema, visto dal consumatore di quell’artigianato umile e indispensabile che entra quotidianamente nelle nostre case. Si tratta del muratore o della piccola impresa edile, dell’idraulico, dell’elettricista, dell’imbianchino, del fabbro e del falegname, lavoratori che ci tirano fuori dai guai con le piccole e grandi manutenzioni o che ci aiutano a creare il nostro ambiente di vita, individualizzandolo e rendendolo più confortevole, non solo con il loro “fare”, ma anche con i loro consigli di buonsenso e buongusto.

Che cosa faremmo senza di loro?

Anni fa, in Egitto, mi è capitato di sentire che facevano arrivare periodicamente in aereo un idraulico dall’Italia. Ma se questa benemerita categoria si estinguerà, o non ci offrirà più lavoratori capaci, noi da dove li faremo arrivare? Chi ci aiuterà a mettere a posto la nostra casetta o il nostro appartamento?

Tutto questo fa parte viva del quotidiano della nostra gente e si riflette positivamente sul territorio, caratterizzandolo e impedendone l’uniformità standardizzata, contribuendo così a creare l’ambiente Italia.

La perdita e lo scadimento dell’artigianato, anche non blasonato, sarebbe perciò una perdita non solo pratica ed economica, ma anche culturale. Però, non si fa niente (o quasi) per evitarla.

Non dimentichiamo che questi lavoratori sono socialmente deboli, perché individualisti e divisi fra loro per il carattere personale accentuato dal tipo del loro lavoro, inoltre sono sì padroni del mestiere, ma non preparati per l’imprenditorialità moderna di un paese democratico, in grado di discutere e far valere le sue ragioni e i suoi diritti. Può anche accadere che gli artigiani sono sottoposti per legge a controlli da parte di altre categorie, sebbene non sembra che i controllori dispongano di maggiori capacità.

Se è vero che qui, come in ogni categoria, esistono anche incompetenti e irresponsabili, questi dovrebbero essere eliminati mediante controlli severi, mentre l’iscrizione all’albo, come il riconoscimento di eccellenza, dovrebbero costituire un punto indiscutibile di forza per garantire le capacità che sono fondamentali.

È sulle persone che dobbiamo contare.

Le capacità e il senso di responsabilità dell’artigianato sono di per sé una garanzia sia verso il cliente che verso gli organi statali di controllo per il rispetto di leggi e regolamenti, mentre tutte le prove e le riprove di questo mondo, le firme e le controfirme, non riusciranno mai ad esaurire tutte le negligenze e gli errori possibili.

In tal modo, spese parassitarie di controlli infiniti sarebbero eliminate senza pregiudicare nulla, con risparmio di spese e di tempo a tutto vantaggio sia dell’artigiano che del consumatore e infine della stessa economia italiana.


Il problema rimane quello della formazione dell’artigiano, che, come si è visto, oggi non può avvenire “a bottega”: ci vuole una scuola di base aperta a tutti mestieri più diffusi (con le necessarie differenziazioni interne), di larghe vedute, con seri fondamenti teorico- pratici e ben organizzata per lo svolgimento di programmi studiati e concertati fra i protagonisti che indicheremo.

Pur riconoscendo i meriti dei corsi esistenti, ho l’impressione che siano palliativi rispetto ai problemi e alle esigenze attuali.

Sono necessarie le basi, ma non si può, come nell’artigianato tradizionale, far impiegare a tutti una vita per costruirsele, tanto più che c’è già chi possiede questo prezioso patrimonio da non “lasciar perdere”: sono i vecchi maestri di mestiere, che devono essere i pilastri della scuola di base accanto ad altri insegnanti, dediti alla formazione culturale, scientifica, tecnica ed artistica.

Il tutto integrato dalla formazione, almeno elementare, all’imprenditorialità: economia, amministrazione, organizzazione e razionalizzazione del lavoro.

Solo da una tale scuola di base possono poi partire corsi seri di specializzazione e di aggiornamento. Naturalmente, nell’indicazione delle materie d’insegnamento ho inteso riferirmi non a pacchetti di informazioni, ma ad una cultura dinamica e di formazione, capace di crescere su se stessa, partendo dall’osservazione dei fenomeni umani e naturali per poi trovare nelle scienze (usando anche Internet) le risposte ai problemi che sorgono. Non dimentichiamo, infatti, che la capacità d’osservazione è fondamentale nel lavoro artigiano (e non solo), specialmente oggi, in cui le giovani generazioni sono abituate a vivere delle immagini virtuali di Internet e della TV.

Tale preparazione aprirà le porte anche di certe industrie e settori specializzati, come avviene già oggi, mentre l’operaio, anche qualificato, dell’industria, non potrà passare all’artigianato proprio per la mentalità acquisita in fabbrica che non si confà al lavoro artigianale.

Considerazione anche più importante: un biennio di scuola di ispirazione pratica, modernamente concepito, deve portare ad una formazione civile e mentale allo stesso livello degli altri bienni di ispirazione teorico-astratta e quindi alle stesse aperture verso gli altri corsi di studio (al massimo con qualche esame integrativo).

Queste sono proposte abbozzate; la loro realizzazione richiede, come già detto, un gruppo di studio competente e sperimentato, formato non solo di insegnanti, rappresentanti professionali e di pubbliche amministrazioni, ma anche essenzialmente di maestri artigiani di vari mestieri.

Il gruppo potrebbe essere di livello regionale o anche locale, ove ne esistano le condizioni. È importante, però, trovare “maestri” che accanto al “mestiere” conservino i valori professionali dell’artigianato: il senso della responsabilità e della dignità del loro lavoro.

Per questo non dobbiamo cercarli in città o nei piccoli centri a vocazione industriale, dove la mentalità generale è stata influenzata da quella del lavoro dipendente e parcellare, ma è più facile trovarli, invece, nei piccoli centri a vocazione artigiana.


Sul filo di queste osservazioni ho pensato a Boves.

Il paese è rifiorito dalle distruzioni della guerra, sfruttando le sue professionalità artigianali tradizionali e sviluppandole. L’artigianato è stato il volano e rimane il fondamento dell’economia e del benessere locale.

Purtroppo la società bovesana non si è resa conto di questa sua concreta risorsa e delle sue possibilità, come non se ne è resa conto l’amministrazione comunale che non le ha dedicato tutta l’attenzione, le cure, il rispetto che merita.

Confrontando il profilo professionale dell’artigiano con i caratteri peculiari dei bovesani, mi pare di trovare in essi Una sorta di “vocazione etnica” all’artigianato; lo spirito di autonomia e di indipendenza, il senso di responsabilità (fino a rispondere nel tempo dei loro manufatti), la curiosità verso il nuovo (che porta l’artigiano a seguire corsi di aggiornamento anche scomodi), lo spirito creativo (che lo impegna con interesse a far fronte alle richieste originali del cliente, al di fuori della routine).

Sono caratteri preziosi, una ricchezza che non deve andare perduta, ma che dovrebbe essere coltivata per dare buoni frutti almeno in un centro di base, come quello auspicato.

IL NOSTRO GRAMSCI


Sergio Dalmasso


Possiamo schematicamente dividere l’attività di Gramsci in tre periodi: gli anni torinesi e l’ ”Ordine nuovo”, la costruzione del partito, il carcere. Li percorriamo sinteticamente, facendo seguire alcune brevi considerazioni.


Gli anni torinesi e l’ “Ordine nuovo”


Antonio Gramsci è a Torino all’età di vent’anni, nel 1911, vincitore di una borsa di studio per la frequenza della facoltà di lettere.

In Sardegna ha maturato le prime letture (Salvemini, Croce, Marx, “La Voce”), aderendo a tesi autonomistiche (è da discutersi se, in seguito, abbandonate o meno).

Nel 1913 si iscrive al PSI, anche per la profonda amicizia con Angelo Tasca che gli trasmetterà una forte impronta culturale e pedagogica. Torino è il maggior centro industriale del paese e non è retorica l’affermazione per cui il giovane studente va a scuola dalla classe operaia, pur mantenendo sempre uno spiccato interesse meridionalista (la lezione di Salvemini).

Nel 1915 la svolta nella sua vita:

«Sono entrato nell’ “Avanti” quando il PSI era ridotto agli estremi… liberamente, per convinzione. Nei primi giorni del dicembre 1915 ero stato nominato direttore del ginnasio di Oulx, con 2500 lire di stipendio e tre mesi di vacanza. Il 10 dicembre 1915 mi sono invece impegnato con l’ “Avanti”, per 90 lire al mese di stipendio».

Qui si manifestano i suoi interessi: l’attenzione alla cultura, al teatro, al costume, al senso comune. La sua rubrica “Sotto la Mole”, calendarietto di vita cittadina, modifica il linguaggio, trasforma il pettegolezzo di tanti giornali, affronta, attraverso pagine minute di vita, aspetti complessivi, così come i suoi articoli politici.

Dopo i moti torinesi contro il caro vita e la guerra, nell’agosto 1917, diviene segretario della sezione socialista e direttore del “Grido del popolo”. Nel novembre, dopo Caporetto, è delegato al convegno nazionale della frazione massimalista. Le iniziali incertezze, con qualche simpatia interventista, si è trasformata in un chiaro astensionismo.

Il 1 maggio 1919 nasce l’ “Ordine nuovo”, inizialmente settimanale. Siamo nel cuore del “biennio rosso”, massimo intreccio tra la crisi del capitalismo internazionale e la spinta operaia che sogna di fare come in Russia, di trasformare e rovesciare il mondo poggiandolo sulle classi subordinate.

La testata del settimanale sintetizza elementi del pensiero gramsciano: la spontaneità e le spinta delle masse (Agitatevi), la necessità di forza e di strutturazione politica (Organizzatevi), la necessità dell’istruzione, della formazione, della cultura (Istruitevi). L’influenza del leninismo e della rivoluzione sovietica si coniuga con la impietosa analisi delle organizzazioni operaie e dei sindacati tradizionali.

È la fase in cui maggiormente Gramsci concepisce l’organizzazione politica come necessariamente fondata sulla fabbrica, sul ruolo centrale dell’operaio nel processo produttivo. Il capitalismo è caratterizzato da concorrenza, anarchia nella produzione, individualismo, disordine, indisciplina.

L’alternativa è data dalla fabbrica, dalla coesione materiale del proletariato; è la fabbrica a costituire il modello organizzativo, su essa si modella il futuro dello stato operaio. I lavoratori sono educati alla rivoluzione comunista da questo apparato.

Inevitabile la teorizzazione del doppio potere. È il rapporto tra operai nella produzione a sviluppare modi di vita e di pensiero alternativi a quelli della borghesia e la conseguente necessità di una struttura organizzativa. I consigli operai sono, quindi, intesi come strumento di lotta rivoluzionaria e, al tempo stesso, come modello istituzionale per lo stato operaio. Nel ’20, Gramsci, avendo acquisito la teoria leniniana del dualismo di potere, scrive: Esistono due poteri in Italia.

È chiaro, oggi, il nodo problematico: è in discussione l’ideologia della neutralità delle forze produttive e dell’organizzazione del lavoro, propria anche del Lenin di Soviet più elettrificazione.

Il 1 gennaio 1921 l’ “Ordine nuovo” si trasforma in quotidiano. 20 giorni dopo a Livorno viene fondato il Partito comunista d’Italia (PCd’I). Il gruppo torinese, pur rappresentando la più significativa esperienza di massa è inizialmente subordinato all’esperienza e all’iniziativa della componente che fa capo ad Amadeo Bordiga.

La convinzione comune è che la situazione veda ancora la fase ascendente aperta dalla rivoluzione sovietica, che il capitalismo non significhi che putrescenza e caos, che l’emergente fascismo non sia pericolo reale, ma un semplice colpo di coda. Da qui la critica frontale al Partito socialista e alla CGIL, in Gramsci mai così netta.


La formazione del partito


Il partito bordighiano è centrato su un programma comunista, su una concezione statica del marxismo, fondato su principi immutabili, sulla proposta astensionista.

«La tendenza comunista astensionista non ha mai avuto la pretesa che le viene affibbiata di essere la più fedele interprete del pensiero di Lenin. Essa ha sempre sostenuto che il bolscevismo non è altro se non il richiamo al più rigido, severo, classico, marxismo al quale continuamente fa appello e a cui continuamente si riporta lo stesso Lenin».

Il gruppo torinese, nei primi anni subordinato a questo (Gramsci avrà sempre grande stima per la statura politica di Bordiga) inizia nel ’23 a proporre un’altra ipotesi di partito e di lavoro politico.

La caratterizzano la creazione di cellule nei luoghi di produzione, l’impegno nel sindacato, la centralità della fabbrica, l’attenzione alla formazione dei quadri (le scuole di partito).

Nel 1924, anche per l’intervento e l’appoggio dell’Internazionale, Gramsci è in maggioranza.

Sono gli anni in cui, nonostante l’affermarsi della dittatura fascista, il PCd’I cresce, raddoppia il numero degli iscritti, nasce e si afferma il quotidiano “L’Unità”; sull’onda dell’opposizione aperta dall’indignazione per il delitto Matteotti, il partito sembra ritrovare slancio e ruolo. Tutti gli scritti di Gramsci colgono le grandi potenzialità, ma contemporaneamente la sproporzione fra la spinta di massa e le capacità ancora insufficienti dell’organizzazione politica.

L’affermazione definitiva della nuova direzione è segnata dal congresso di Lione (1926) le cui tesi segnano un grande documento, capace di analisi strutturale, di applicazione del marxismo all’analisi concreta della realtà italiana ed internazionale.

Le tesi propongono la linea di massa per il partito, il funzionamento collegiale degli organi politici, il maggior ruolo degli organi periferici, la capacità di calarsi nel lavoro illegale, l’analisi precisa dell’imperialismo italiano, l’attenzione alla questione contadina e all’influenza della religione cattolica sulla società, in particolare sulla masse contadine meridionali, propone l’incontro di operai e contadini in un blocco storico capace di trasformare la società.

L’originalità e l’anticonformismo di Gramsci, autentico marxista critico, si manifestano nel 1926, quando davanti allo scontro nato nel Partito comunista dell’URSS, una sua lettera critica metodi e deformazioni che stanno affermandosi. La lettera è bloccata da Togliatti che risponde nervosamente e per anni ne sarà negata l’esistenza (verrà pubblicata ufficialmente solo nel 1966) e denota, indubbiamente una lettura diversa delle caratteristiche della società socialista. Trotskij, Zinoviev e Kamenev hanno posizioni errate, ma ci «hanno educati… ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati fra i nostri maestri». La maggioranza non deve stravincere, deve evitare le misure eccessive. È ovvio che già nel ’26 e più ancora dal carcere, il confronto fra la realtà dello stalinismo e gli anni e la prassi leninista portino il comunista italiano a riflettere sui pericoli di degenerazione e di potere personale in URSS e sulla degenerazione che sta investendo il movimento internazionale.


Il carcere


Ancor più netto, ormai dal carcere di Turi, il dissenso di Gramsci nel 1929, davanti alla ennesima, netta svolta dell’ Internazionale. La crisi economica viene letta, da parte comunista, come il segno dell’imminente crollo del sistema capitalistico e della inevitabile vittoria di una ipotesi rivoluzionaria, solamente “sospesa”dopo il biennio 1919- 1920. In questo quadro, il compito dei comunisti italiani sfuggiti alla repressione fascista è il rientro in Italia, paese prossimo non solo al crollo del regime, ma alla rivoluzione sociale; la parola d’ordine: Tutti in Italia, conseguenza di questa analisi schematica e scolastica, è contraddetta da Gramsci che dal carcere elabora una ipotesi politica radicalmente diversa:

- è assurda l’ipotesi del crollo imminente a livello mondiale del sistema capitalistico,

- è errata l’ipotesi del socialfascismo (un blocco unico contro il comunismo che accomuna fascismo e forze democratiche) che tra l’altro cancella e vanifica tutta la polemica leniniana contro l’estremismo,

- tra fascismo e socialismo è necessario prevedere una fase di transizione (la Costituente non come fine, ma come mezzo in cui trovino posto le rivendicazioni più immediate della classe lavoratrice).

L’isolamento in cui Gramsci passa gli ultimi anni della sua vita, i contrasti con gli stessi compagni di carcere sono conseguenza di queste posizioni e sono documentati dalle lettere.

Per questo, l’albero genealogico spesso presentato: Gramsci – Togliatti – Longo – Berlinguer è elemento propagandistico, non sempre motivato, o comunque da discutere storicamente se non politicamente.


Per una riflessione


Un uomo isolato, distrutto fisicamente e psicologicamente produce, dalla cella di un carcere, con quasi inesistenti contatti con il mondo esterno e con pochissimi strumenti, una delle opere di maggior importanza per la cultura, non solamente italiana, del ‘900. La prima, certo imprecisa, suddivisione dei Quaderni dal carcere, così li titola tematicamente: Materialismo storico, Gli intellettuali, Sul Risorgimento, Note sul Machiavelli, Letteratura e vita nazionale, Passato e presente.

Chiaro l’intendimento di una riflessione non contingente, ma di lungo periodo.

Il marxismo della Seconda internazionale ha piegato il pensiero critico e dialettico di Marx verso una china oggettivistica e scientifica. Leggi oggettive regolano lo sviluppo della natura e la storia. Le leggi dell’evoluzione, applicabili nello studio della continua e progressiva evoluzione della specie, sono da applicarsi anche alla storia. L’affermazione della classe operaia è un portato dell’evoluzione e avverrà attraverso progressive conquiste e dislocamenti progressivi del potere (vedi, per questa interpretazione: Lelio BASSO, Socialismo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1980).

Bernstein, Kautsky, Plechanov… pur nelle differenze, concordano su questa prospettiva gradualista.

Gramsci, fin dai suoi primi scritti, rivaluta, al contrario l’intervento attivo dell’uomo nella storia. La rivoluzione contro il Capitale, scritto con cui saluta la rivoluzione sovietica, è l’esaltazione dell’intervento cosciente che ha piegato le leggi ferree dell’evoluzione, a parer suo, teorizzate nel Capitale di Marx.

Fra le due guerre, la spaccatura fra le due letture del marxismo si accresce. La situazione (isolamento dell’URSS, crescita della destra) favorisce l’irrigidimento ideologico. In URSS si conia, come dottrina ufficiale, il materialismo dialettico (Diamat). Stalin scrive Sul materialismo dialettico e sul materialismo storico. Ogni deviazione dalla dottrina ufficiale è considerata errore e tradimento, strumento utile per la reazione.

Contro l’economicismo che considera unicamente la base economica e in contrapposizione a questa logica riduttiva e parziale vengono pubblicati, nel 1923, due testi: Storia e coscienza di classe di Gyorgy Lukacs e Marxismo e filosofia di Karl Korsch.

In questi, la logica è opposta. Cardini del loro pensiero sono il concetto di totalità e il ruolo centrale del proletariato. Per comprendere un fenomeno storico, occorre tenere conto di ogni dato, del contesto, non solamente del quadro economico. È il materialismo storico di Marx a darci la chiave per comprendere i fenomeni storici; una visione globale non appartiene a tutti, ma solamente a chi si immedesima nella coscienza collettiva di una classe sociale. La borghesia può cogliere la totalità, ma la vede nei rapporti economici, nella merce. Solamente il proletariato può spezzare questa logica, vedendo la società nella sua realtà. È il comunismo la società in cui i rapporti fra esseri umani non sono più sottoposti alle regole di mercato.

Nel 1925, il quinto congresso dell’Internazionale “scomunica” i due testi come cedimento piccolo borghese a concezioni idealistiche. Il Diamat si afferma come legittimazione della società esistente.

Anche la Scuola di Francoforte, con il suo tentativo di legare marxismo e psicoanalisi, di inserimento di questa in una sfera sociale, con la sua grande capacità di lettura della società di massa e dell’autorità in tutte le sue forme, sarà oggetto di una chiusura totale e riscoperta (non a caso come Rosa Luxemburg) solamente negli anni ’60.

Davanti alla sconfitta politica e all’impoverimento culturale del movimento comunista, è Antonio Gramsci l’autore della più compiuta riflessione sullo scacco degli anni ’20 e contemporaneamente e teorizzatore di un pensiero (e forse addirittura di un comunismo) diverso e più ricco.


I Quaderni dal carcere


Di questi che rappresentano uno dei maggiori contributi alla cultura italiana del ‘900 e al marxismo teorico e che offrono, a distanza di 80 anni, apporti alla filosofia, al pensiero politico, alla storiografia internazionale (bastino il concetto di egemonia, il rapporto dialettico struttura/ sovrastruttura, o il nesso stato/società civile) isoliamo unicamente alcuni temi.


La critica a Bucharin. La propaganda marxista ha spesso prodotto una fase popolaresca, con tendenze deterministiche, fatalistiche, meccaniche. In fasi di sconfitta, questa concezione può divenire elemento di forza, di fede, di resistenza. Al contrario, quando il movimento rivoluzionario diviene forza dirigente, l’interpretazione meccanicistica si trasforma in un pericolo.

Esempio di questa semplificazione è il testo di Nicola Bucharin La teoria del materialismo storico, manuale popolare di sociologia marxista (1921) che riduce la filosofia della prassi (come Gramsci, non solo a causa della censura carceraria, chiama il marxismo) a ideologia, a verità assoluta, volgarizzandola.

Il marxismo rischia di essere ridotto alla teorizzazione di tesi meccanicistiche, di divenire un sistema dogmatico di verità assolute che giudica come assurde e prive di fondamento tutte le teorie precedenti: È indubbio come la critica gramsciana tenti di ridare al marxismo la veste di filosofia critica della storia e attribuisca centralità al momento filosofico superiore rispetto alle altre fonti (economia politica classica, rivoluzione francese) che riesce a sintetizzare.

La sua interpretazione coglie la natura anche filosofica della critica dell’economia politica contro la Seconda internazionale che nel Capitale vede solamente una nuova e superiore teoria economica. La critica dell’economia politica investe, invece, l’intera società capitalistica, in tutti i suoi aspetti, come “non universale”, ma capace di rispondere solo ad una classe sociale.


Il confronto con Croce. E’ indubbio che il confronto, anche se dal carcere, con Croce, coinvolga le due maggiori personalità culturali del ‘900 italiano, perlomeno quelle che maggiore influenza hanno avuto sul clima e sulla formazione intellettuale del nostro paese.

Se una ripresa del marxismo può avvenire solo confrontandosi con il livello più alto della cultura mondiale, in Italia il passaggio per la critica alle posizioni crociane è inevitabile. Diversa è la concezione dell’intellettuale (“tradizionale” in Croce, centrato sulla militanza politica nei Quaderni), netta la critica al peso avuto dai grandi intellettuali meridionali nella formazione complessiva della cultura e del senso comune nelle regioni del sud: Croce è una specie di papa laico. È il legame organico al proletariato a permettere all’intellettualità di avere un nuovo ruolo, di assumere impegno politico davanti ai nodi storici reali.

Tornano e si esplicitano, in questo confronto, i grandi temi del pensiero gramsciano: la questione meridionale, il ruolo della religione cattolica, il superamento dell’intellettuale “tradizionale” in quello “collettivo”


Il Risorgimento. Il Risorgimento italiano è “rivoluzione passiva”, cioè rivoluzione borghese parziale ed incompiuta. In esso non hanno avuto ruolo le grandi masse popolari, in particolare il mondo contadino. Le forze borghesi, ma anche quelle democratiche, rappresentate soprattutto dal Partito d’Azione non hanno saputo e voluto promuovere quella riforma agraria che sola avrebbe potuto muovere le masse contadine, legando l‘idealità nazionale a precise e concrete motivazioni sociali.

Questo mancato collegamento ha avuto conseguenze gravi e irrimediabili per lo stato unitario che si è costruito sul legame tra grandi proprietari terrieri meridionali e la nascente industria del nord, escludendo totalmente le masse popolari (contadini, operai…). La permanenza, a sud, di residui feudali e la politica reazionaria delle classi dirigenti hanno permesso una politica che non ha mai affrontato le grandi questioni sociali, la questione meridionale, quella della partecipazione del proletariato, scaricando sulla migrazione, su un ritardato colonialismo da piccolo imperialismo, su un intreccio fra repressione e clientelismo i problemi irrisolti.

Da qui la cronica debolezza istituzionale, da qui l’incompiutezza, a confronto con altri paesi, della nostra democrazia, da qui l’avvento del fascismo come risposta al fallimento dell’Italia liberale.


Americanismo e fordismo. L’imperialismo statunitense, affermatosi già negli ultimi decenni dell’ ‘800, agisce, con tutto il suo peso, sull’intero ventesimo secolo (tralasciamo considerazioni sull’oggi), a causa della sua grande potenza economica e militare, ma anche per una evidente egemonia politico - culturale. Nella riflessione di Gramsci emerge nettamente il legame organico fra l’egemonia americanista e le punte più avanzate del capitalismo. L’americanismo, quindi, non è limitato agli USA, ma è da intendersi come forma universale dell’egemonia capitalistica.

Oltre all’aspetto strutturale, l’analisi tocca il nuovo tipo umano che esso produce. L’uomo ridotto a scimmia dalla taylorizzazione, controllato in ogni aspetto della vita (dalla produzione, alla famiglia, al tempo libero) è esemplificato dall’espresione “uomo scimmia” e, nel cinema, dal personaggio chapliniano di Tempi moderni.

Il fordismo è caratterizzato dalla radicalizzazione e generalizzazione del taylorismo, dalla sussunzione diretta, sotto il capitale, di ogni forma di riproduzione della forza lavoro.

Ancora una volta, come già negli scritti sull’ “Ordine nuovo” circa la crescita della classe operaia e del regime di fabbrica, Gramsci coglie l’aspetto potenzialmente positivo di questo processo: l’americanismo e il fordismo derivano dalla necessità di pervenire ad una economia programmata. Questa segna il passaggio da un capitalismo individualistico ad uno monopolistico. Qui sta il terreno concreto, perché il proletariato possa rovesciare il capitalismo.

È ovvio che oggi l’eccezionale attualità dell’analisi gramsciana e della sua “scoperta” (chi altri coglie la enorme novità nell’economia, nella politica e nel modo di pensare di quella trasformazione nel momento in cui si svolge?) debba essere verificata a distanza di decenni.

La quasi scomparsa dell’operaio-massa nei paesi occidentali è compensata dalla crescita industriale in nuove aree? È corretto parlare di post fordismo davanti a paesi come Cina, India, all’area asiatica? Perché non si è verificata la previsione gramsciana secondo la quale contro l’americanismo sarebbe cresciuto lo spirito critico e invece crescono i fenomeni di spoliticizzazione e di conformismo di massa?

È chiaro che anche Antonio Gramsci sia da rileggere criticamente. Anche a settant’anni dalla morte.


In sintesi.








Gli sviluppi del materialismo storico in Italia (Benedetto Croce – Antonio Gramsci), Cuneo, Circolo Pinelli, 1975.


GLI SVILUPPI DEL MATERIALISMO STORICO IN ITALIA

(BENEDETTO CROCE - ANTONIO GRAMSCI)


Sergio Dalmasso


QUESTE BREVI NOTE NON HANNO ALCUN CARATTERE DI SCIENTIFICITÀ ED ALCUNA PRETESA DI NOVITÀ, MA MIRANO, SEMPLICEMENTE, AD OFFRIRE UNA SINTESI UTILIZZABILE PER UN CORSO DI «FORMAZIONE QUADRI».


La scuola democratica napoletana di Beltrando Spaventa, lo staccarsi da questa scuola di Antonio Labriola che lentamente approderà al marxismo, diventando il primo e forse l’unico vero «socialista teorico» italiano del secolo scorso, hanno una grande importanza per la formazione del giovane Benedetto Croce.

È una leggenda, come egli stesso ricorda, («Dunque, per quanto io cerchi e altri cerchi, non mi riesce a determinare il tempo in cui sarei stato marxista ortodosso, e il momento in cui sarebbe avvenuta la mia conversione») la sua adesione al marxismo, ma è indubbio che l’influenza di Labriola e soprattutto l’enorme peso delle teorie politiche di Marx lo portano a studiare lungamente gli scritti. Importante a tale proposito, cosa che si noterà poi anche in Gramsci, è il rifiuto completo, l’avversione quasi istintiva per le pedanterie e la vacuità dei socialisti italiani, e l’avversione, ereditata da Labriola, per ogni interpretazione meccanicistica e positivistica.

Da questa avversione nasce la negazione della legge di movimento, cardine del materialismo storico, ritenendo egli completamente arbitrario parlare di una storia mossa dalla lotta di classe, e soprattutto parlare di epoche storiche che si susseguono l’una all’altra in relazione ai mutamenti delle forme economiche. Lo schema del materialismo storico, cioè, postula una concordanza fra i rapporti produttivi ed il grado di sviluppo delle forze produttive, per cui i rapporti di proprietà devono adattarsi alle forze produttive. Questo continuo adattamento provoca mutamenti nella struttura economica per cui la storia viene vista come il passaggio dall’economia asiatica, all’economia antica, all’economia feudale e quindi all’economia borghese, con il conseguente passaggio attraverso le quattro epoche storiche del comunismo primitivo, della economia di schiavitù, dell’economia di servitù (feudalesimo) dell’economia di salariato (capitalismo).

L’ascesa continua di una classe, il proletariato, all’interno della società capitalistica, porta, come conseguenza logica, il passaggio ad una società basata su rapporti di produzione socialisti, attuati, in un primo tempo, attraverso la dittatura del proletariato, ed in un secondo tempo attraverso il comunismo.

Croce insorge molto duramente contro il materialismo storico e contro l’interpretazione meccanistica che il positivismo ne ha dato, criticando pure le teorie economiche stesse su cui tale concezione si basa. Le principali sue tesi, con le quali nega il materialismo storico sono quattro.

La prima riguarda il modo di intendere e di adoperare il materialismo storico da parte dei marxisti, la seconda riguarda l’interpretazione da dare alla teoria marxista del valore, la terza concerne la legge sulla caduta: tendenziale del saggio di profitto, la quarta la proposta di una scienza filosofica dell’economia, che sorga accanto alla comune economia empirico astratta.

Sul primo punto Croce, ripetendo le teorie idealistiche, nega la possibilità di racchiudere la storia entro schemi, nega validità alla legge del movimento, afferma la libertà, ancora idealisticamente intesa, dell’uomo, considerando lo come singolo e non come inserito in una classe, ripudia la teoria della lotta di classe, negando essa possa essere generalizzata, non essendovi sempre classi, e non avendo esse sempre interessi antagonistici.

Sul terzo punto, la caduta del saggio di profitto, Croce espone la concezione di Marx per cui il saggio, chiamando Cc il capitale costante, cioè le macchine, Cv il capitale variabile cioè la forza lavoro, e P il profitto nascente dal plusvalore, sarà:


P.

 = SP.

Cc. + Cv


Secondo Marx, aumentando il progresso tecnico, la stessa forza lavoro verrà chiamata a mettere in atto un capitale costante accresciuto dalla introduzione di nuove macchine, per cui il rapporto tenderà costantemente a scendere.

Cioè: fatto P = 500 Cc = 500 Cv = 500 si avrà


500

 = 50%

500 + 500


Nel secondo caso, accrescendo il capitale costante e mantenendo il profitto ed il capitale variabile, si avrà ad esempio:


500

 = 41 %

700 + 500


Croce ritiene inesatta questa teoria economica considerando il capitalismo tendente a produrre una eguale quantità di prodotti con una minore spesa, e conseguentemente con la diminuzione della forza lavoro impiegata. La diminuzione del lavoro sociale porterà ad una diminuzione, sia del capitale costante sia del capitale variabile per cui si avrà, nello stesso caso:


P = 500 Cv = 450 Cc = 450 di cui:


500 500

 =  = 55,5%

450 + 450 900


per cui il saggio di profitto non sarà diminuito, ma addirittura, tenderà costantemente a crescere.

Un’altra teoria economica marxista negata da Croce è quella del valore. Nell’esporre la propria concezione a proposito di questa legge, Croce si rifà ad una polemica con Labriola che l’aveva accusato di non aver saputo chiarire ciò che, in un precedente scritto, aveva detto a proposito di questo argomento. Egli, polemizzando appunto con Labriola, afferma che la dottrina marxiana del valore, e quindi tutta la concezione economica che se ne ricava (trasformazione del valore in prezzo, natura del profitto insita nel sopravalore) non può essere considerata come una legge scientificamente dimostrata, ma resta semplicemente una petizione di principio, non avendo mai avuto, e non potendo mai avere attuazione. La parte di prodotto riscossa dai capitalisti non può cioè essere chiamata sopravalore se non essendo paragonata ad una società inesistente, in cui il lavoro sia esercitato in misura uguale, da persone con uguale capitale, le quali traggono conseguentemente dal lavoro un eguale ricavo.

Tutta la teoria economica espressa da Marx nelle sue opere non avrebbe quindi valore alcuno, non essendo il sopravalore un elemento comprovabile e definibile economicamente, ma invece, ricavato, da parte di Marx, fuori del campo della teoria economica pura, cioè da un particolare tipo di società in cui l’ordinamento giuridico e le presupposte condizioni di fatto rendono il valore corrispondente alla quantità di lavoro.

Da queste considerazioni Croce passa, in primo luogo a sostituire all’economia tradizionale, da lui definita empirico astratta, una nuova scienza filosofica dell’economia e quindi a definire ormai morto completamente il marxismo in un lungo saggio intitolato «Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia ».

La nascita del marxismo teorico italiano è da Croce fatta ascendere alla pubblicazione, sulla rivista parigina «Devenir social», dello scritto di Antonio Labriola che sarebbe poi stato pubblicato in Italia con il titolo: «In memoria del manifesto dei comunisti», che per la prima volta teorizza il passaggio dal socialismo utopistico al socialismo scientifico, dimostrando la esatta comprensione di questo processo al di fuori degli schemi positivistici, allora dominanti. Poco dopo questo saggio, il Labriola compone l’opera «Del materialismo storico, delucidazione preliminare» che fonda la sua autorità come sistematore filosofico del materialismo storico, anche a causa della sua divulgazione internazionale (prefazione di Sorel, lettura ed elogio da parte di Trotky).

Caratteristiche fondamentali di queste opere sono la polemica contro il positivismo ed i suoi principali sostenitori, pseudomarxisti, quali il Loria e Enrico Ferri ed al tempo stesso contro ogni tentativo di metafisicizzare il processo storico, quale quello compiuto da Croce stesso nella sua proposta: di una scienza economica «pura». La mancanza di una vera analisi marxista negli anni immediatamente successivi al 1900, viene da Croce interpretata come una fine irreversibile per il socialismo scientifico in Italia e non solo in Italia ma nel mondo intero «Del resto, sorpassato ora sempre di più il catechismo marxistico in Russia dai fatti e con questi stridente e a questi incomodo, già si vedono segni precorritori che la rinascita del marxismo in Europa non avrà vita lunga, perché qui non che con i fatti, esso contrasta con il progredito pensiero e con la cultura».

Pochi mesi prima che Benedetto Croce, nell’agosto del 1937, completasse questo suo saggio moriva, stroncato dalle carceri fasciste, Antonio Gramsci, l’opera del quale è la migliore dimostrazione che il marxismo teorico non fosse morto con Antonio Labriola, ma, anzi, che avesse in sé tutte le possibilità per sostituirsi a tutta la ideologia borghese, allora dominante.

Nel secondo volume delle sue opere complete «Il materialsmo storico e la filosofia di Benedetto Croce» Gramsci porta certamente uno dei più importanti contributi alla discussione sul problema della filosofia marxista della storia.

La propaganda marxista nel movimento operaio ha portato come logica conseguenza una fase popolaresca, in cui l’elemento deterministico, fatalistico e meccanico è stato storicamente e comprensibilmente «l’arma ideologica della filosofia della prassi», come Gramsci a causa della censura, ma non solo a causa di essa, chiama il marxismo.

«Quando non si ha iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata ... La volontà reale si traveste in atto di fede ... in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato, che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza ecc. delle religioni confessionali. Occorre insistere sul fatto che, anche in tal caso, esiste realmente una forte attività volitiva, un intervento diretto sulla «forza delle cose» ma appunto in una forma implicita, velata che si vergogna di se stessa».

Ma il pericolo sorge quando il movimento rivoluzionario diventa una forza dirigente, poiché l’interpretazione meccanica della legge del movimento è comprensibile come filosofia di larghe masse, ma inaccettabile come idea centrale di una filosofia dialettica «È ora di fare un elogio funebre di essa, rivendicandone la utilità per un certo periodo storico, ma appunto per ciò sostenendo la necessità di seppellirla, con tutti gli onori del caso». La validità storica del marxismo è data, secondo Gramsci, in gran parte dall’affermazione che non esiste realtà storica indipendente dagli uomini, che non esistono valori eterni, ma solo valori realmente umani, che il passaggio del socialismo da scienza ad azione, il passaggio della teoria marxista a teoria dominante della società, ha un significato, in quanto dialettica reale del marxismo come «critica reale» della filosofia marxista. Il contrasto tra la sua interpretazione e quella «dei materialisti volgari, alla Plechanov, sta nel fatto che egli ritiene le leggi storiche «leggi di tendenza» affermando esservi certe regolarità, certe tendenze, e quindi anche una certa possibilità di prevedere lo sviluppo, ma mai nel senso di un determinismo metafisico, che ritiene si possa, con una formula meccanica, mettere in tasca tutta la storia.

Conseguenza logica di questa posizione è la critica al testo di Nicola Bukharin «La teoria del materialismo storico - manuale popolare di sociologia marxista» pubblicato a Mosca nel 1921 in cui egli riscontra la teorizzazione delle tesi meccanicistiche. «Perciò avviene che la filosofia della prassi tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne, specialmente quando essa è confusa con il materialismo volgare, con la metafisica della materia, che non può non essere eterna ed assoluta».

«Si prevede nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato preveduto». La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come «l’espressione astratta dello sforzo che si fa, in modo pratico, di creare una volontà collettiva».

Giudicare tutto il passato filosofico come un insieme di teorie filosofiche assurde, prive di ogni valore non è che una conseguenza di questa posizione adialettica ed antistorica, e soprattutto metafisica, ritenendo di poter fissare un pensiero dogmatico universalmente valido, da usarsi come parametro per giudicare il passato ed il futuro «Difetto del saggio è presentare le dottrine filosofiche passate su uno stesso piano di trivialità e banalità, così che al lettore pare che tutta la filosofia passata sia stata una fantasmagoria di baccanti in delirio ... È facile parere di aver superato una posizione abbassandola, ma si tratta di una pura illusione verbale». Il termine filosofia viene, cioè, da Gramsci, impiegato in modo diverso da quanto generalmente avviene in tutta la tradizione marxista. Mentre Engels aveva dichiarato per sempre morta la filosofia, Gramsci rivaluta il termine, giudicandola, cioè, come una visione globale del mondo, organica, che sia in grado di usare in ogni caso un metodo valido, capace di interpretare la realtà in tutti i suoi aspetti.

«Il marxismo è una filosofia che è anche una politica, ed una politica che è anche una filosofia» dirà, distinguendo i due termini filosofia e ideologia, rimanendo quest’ultimo un meccanismo messo in atto dalla classe dominante, per influenzare il proletariato ed impedirgli di avere una propria visione organica del mondo, dandogliene una parziale e prefabbricata.

Resta, nonostante il giudizio storico dato sullo svolgersi del pensiero, una differenza fondamentale tra la filosofia della prassi e le altre, essendo queste ideologie creazioni inorganiche e contraddittorie, perché dirette a conciliare interessi contradditori, mentre «la filosofia della prassi non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di tali contraddizioni. Non è lo strumento di governo di gruppi dominanti per avere il consenso ed esercitare l’egemonia su classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo ...».

«La Critica delle ideologie, nella filosofia della prassi, riveste il complesso delle superstrutture, e afferma la loro caducità rapida, in quanto tendono a nascondere la realtà, cioè la lotta e la contraddizione».

La polemica con la filosofia crociana diventa, a questo punto, inevitabile. Croce e Gramsci sono le due maggiori personalità filosofiche italiane del secolo, divise non tanto per la formazione (idealistica in ambedue, con avversione quasi istintiva per il positivismo), quanto per la diversa collocazione politica e l’impegno portato nella società. Gramsci, con tutto il gruppo dell’Ordine nuovo, ha una formazione idealistica, sulla quale si innestano le grandi lotte del proletariato torinese, e la esatta comprensione della rivoluzione d’Ottobre e del valor universale che essa aveva. Attraverso la milizia politica, si crea una differenza notevolissima con quello che egli stesso definirà «l’intellettuale tradizionale» di cui Croce è l'esempio chiarissimo:

«...gli intellettuali i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la catarsi del momento economico al momento etico politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso, sintesi che essi manipolano speculativamente nel loro cervello, dosandone gli elementi arbitrariamente. Questa posizione giustifica il loro non impegnarsi, interamente nell’atto storico reale ed indubbiamente comoda: è la posizione di Erasmo nei confronti della riforma».

Per Gramsci l’intellettuale, il filosofo, non si deve isolare dal mondo, dal popolo, dal proletariato. Ogni uomo è intellettuale, è filosofo; la divisione tra lavoro manuale ed attività intellettuale è la base della società capitalistica e deve essere eliminata; compito dell’intellettuale, tradizionalmente inteso, non è stato quello di dare al proletariato una coscienza inesistente, quanto quello di attivare attività già esistenti:

«Una filosofia della prassi non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico come superamento del modo di pensare precedente e del concreto pensiero esistente..... Quindi, innanzi tutto, come critica del senso comune (dopo essersi basata sul senso comune per dimostrare che tutti sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex novo una scienza nella vita individuale di tutti, ma di innovare e rendere critica un’attività già esistente)».

Rispondendo alle critiche mosse da Croce all’economia marxista Gramsci riafferma i cardini di questa teoria come la teoria del valore, anche se basata su un paragone ellittico, un paragone cioè tra i fatti reali ed una ipotetica società futura, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, la critica alla quale è, da parte di Croce, derivata dallo stesso Capitale e soprattutto difende la possibilità di una scienza economica che non si riduca alla tradizionale economia classica liberista.

Centrale di tutta questa polemica con Croce, è, come già affiora chiaramente nella «Questione meridionale» il riconoscimento della notevole peso avuto da parte dei grandi intellettuali meridionali sulla formazione intellettuale di tutta la classe colta meridionale «L’influsso del Croce è meno rumoroso di quello del Gentile, ma più profondo e radicato; Croce è realmente una specie di papa laico, ma la morale del Croce è troppo da intellettuali, troppo di tipo Rinascimento, non può diventare popolare, mentre il papa con la sua dottrina influenza masse sterminate di popolo, con massime di condotta...».

Tornano cioè i temi cari all’analisi gramsciana e specifici della situazione italiana: la questione meridionale, il peso enorme, sul popolo, della religione e del Vaticano, il problema del intellettuale e della sua funzione all’interno della società di classe.

E, fatte queste premesse, la teorizzazione dell’intellettuale collettivo non è che consequenziale.





DON LORENZO MILANI - IL PRETE AMARO DI BARBIANA


Sergio Dalmasso


Prete amaro di Barbiana è la bella espressione che padre Ernesto Balducci, una delle più grandi voci del cattolicesimo conciliare italiano, per cui riferisce a Milani, per cui questi ha scelto la via della rottura per aggredire il mondo degli altri e per far nascere nella coscienza di tutti noi il piccolo amaro germoglio della vergogna.

Lorenzo Milani nasce il 27 maggio 1923, anno della morte di don Minzoni e pochi mesi dopo la marcia su Roma. La famiglia è ricca, possiede tenute nel Chianti, ville, un palazzo in città. È laica e non vi mancano note di anticlericalismo. La madre, Alice Weiss, è ebrea, ed avrà grande influenza sulla formazione del figlio.

I primi amici appartengono alla ricca borghesia della città, sono i signorini che tanto criticherà in Esperienze pastorali, accanto alla critica ai salotti di piacevoli conversazioni, dove ognuno finge di rispettare il pensiero altrui.

Nei primi anni ’30, la famiglia si trasferisce a Milano. Il padre, temendo possibili conseguenze a causa della origine della moglie, decide di celebrare il matrimonio religioso e di far battezzare i figli, con quello che, nel lessico familiare, diverrà il battesimo fascista.

Nel ’41 la maturità, presa, per decisione personale, con un anno di anticipo, per quanto Lorenzo non abbia mai avuto buoni risultati scolastici né abbia mai dimostrato particolari interessi per lo studio. Un anno a lezioni di pittura, in quella sorta di boheme costituita da Brera, quindi la conversione.


Sacerdote per i poveri. La scuola.


La scelta per i poveri e gli ultimi è netta, radicale, quasi per superare un senso di colpa derivante dalle sue origini. All’amico e compagno d’infanzia Saverio Tutino, che ha scelto la Resistenza e la militanza nel PCI, scriverà nel 1945: Vediamo se sei più comunista tu o io; chi ha fatto di più, in questi due anni, per la gente? Analogo l’atteggiamento in altre due successive lettere, sulle bidonvilles di Roma e, in occasione di un viaggio nella capitale francese, sulla scelta di vedere un’altra Parigi, così come nel profondo disagio provato a Firenze, quando, passando in una strada popolare, si sente gridare da una donna: Non si viene a mangiare pane bianco nelle strade dei poveri!

Nel ’43 il sacramento della Cresima, lo studio del cristianesimo, per lui nuovo; il 9 novembre l’ingresso nel seminario di Castello in Oltrarno, con la rinuncia ai beni, la scelta per la povertà, la scoperta, anche nell’esperienza personale, della differenza fra ricco e povero. Il seminario dà cultura, accresce le distanze fra chi possiede o meno strumenti culturali; è un errore e una contraddizione che da questo escano maestri di morale.

È ordinato sacerdote il 13 luglio 1947 ed inviato come cappellano a S. Donato di Calenzano. Qui inizia a mettere in pratica la scelta per i poveri di cui scopre l’abisso culturale, anche se con grandi domande e contraddizioni e continue domande: è possibile evangelizzare i poveri senza aver dato loro strumenti culturali? In montagna, con la scuola, non li potrò fare cristiani, ma potrò farli uomini. Sbaglia l’Azione cattolica, nella sua attività, creando contrapposizioni tra chi va in chiesa e chi no. Il discorso pastorale si deve rivolgere ai lontani, non al gregge dei sani, lasciando fuori gli abbandonati nella tempesta. È la scuola lo strumento per cancellare differenze di classe: La scuola è il bene della classe operaia, la ricreazione è la rovina. Per questo occorre dare formazione, evitando di attrarre i giovani, in gara con i comunisti, con gli stessi mezzi: cinema, bar, TV, gioco delle carte, biliardo, campi sportivi (rispetto alle case del popolo mancano solamente le sale da ballo).

Netta, a volte anche eccessiva, confinante con il moralismo, l’avversione al conformismo, agli strumenti, primo fra tutti lo sport, creati per distrarre, condizionare, distogliere dai nodi reali: Non vedi che organizzano apposta il Giro d’Italia e il cine per imbambolarti e tenerti lontano dalla scuola e dal sindacato? Ma loro la Gazzetta non la leggono e badano a star dietro al loro sindacato e a mandare i loro figli all’università e poi ridono alle tue spalle.

La scuola per figli di operai e contadini è il massimo impegno del giovane sacerdote; una scuola per tutti, tanto che non viene esposto il crocifisso che la renderebbe di parte. Da questa scelta l’accusa di aver fatto un male immenso al suo popolo, e la sua difesa in una lettera (1953) al cardinale Elia Della Costa. Sono gli anni del trionfo democristiano, della scomunica ai comunisti, dello scontro frontale, dei due campi contrapposti. Milani voterà sempre DC, come atto di obbedienza alla Chiesa, avrà sempre una critica netta, radicale, di fondo al movimento comunista e alla negazione della libertà in esso presente. La contraddizione è però forte e da lui sentita profondamente e con sofferenza. A chi lo accusa di non avere dato sufficiente impegno in occasione delle elezioni, ricorda che il comune in cui opera e in cui ha dialogato con tutti, è l’unico in cui il PCI non è cresciuto, che il comunismo deve essere combattuto sul suo terreno (non è estraneo l’insegnamento di Dossetti). Forte la sua sofferenza quando candidato nella DC, partito che osa profanare così il nome di cristiano, è l’azionista di una industria che licenzia lavoratori che lavorano lì da decine di anni e che avevano salvato gli impianti della fabbrica dai tedeschi. Con un tono che ricorda la futura Lettera a una professoressa, Milani continua: Si vuol mandare a far leggi costui, come se le leggi non fossero tutte già abbastanza in suo favore!


Barbiana.


Il 6 dicembre 1954, dopo 7 anni trascorsi a S. Donato di Calenzano, il sacerdote, che ha da poco superato i trent’anni, viene trasferito nella piccolissima parrocchia di Barbiana che si voleva chiudere e diviene, invece, il luogo finale della sua missione di sacerdote.

La montagna sta conoscendo l’esodo verso il piano. Anche Barbiana ha ormai pochi abitanti e sembra fungere da confino per un prete scomodo. La Curia non ha capito il suo lavoro. Milani rivolge al cardinale Florit una lettera colma di sdegno, ma anche di dolore: il male fatto a lui dalla Curia è, in realtà, un male rivolto ai due popoli, quelli delle due parrocchie.

Ancora una volta, la scuola e la ricerca di una vera e non conformistica fede sono al centro della sua opera. La religiosità è spesso espressa con rituali meccanici di cui non si comprende il significato. Alcuni giovani vivono la messa come un dovere, un obbligo sociale, a volte un luogo di appuntamento domenicale. L’apparente ottusità campagnola, oggetto di satira e senso di superiorità da parte dei cittadini, deriva dalla incapacità di esprimersi, dal non conoscere i termini, dalla non disinvoltura dell’espressione.


Esperienze pastorali.


Nell’aprile 1958 Milani pubblica Esperienze pastorali, un testo incentrato sulla sua esperienza di sacerdote e sul rapporto fra i religiosi e il “popolo”. L’accentuato integrismo della Chiesa ha prodotto come reazione un forte sentimento anticlericale; nell’estate scoppia lo scandalo Giuffrè, il “banchiere di Dio”, poco prima è stato rinviato a giudizio il vescovo di Prato, per aver definito pubblici concubini due coniugi sposati civilmente. La condanna, per quanto lievissima e per quanto cancellata in seconda istanza, suscita una reazione violentissima nella Chiesa che sente il proprio comportamento, per la prima volta, messo in discussione.

In questo quadro, se il libro è accolto con entusiasmo da settori cattolici (don Mazzolari sulla sua rivista “Adesso”) e laici1, le reazioni ufficiali della Chiesa sono durissime. Il “Bollettino di informazioni” cita un discorso di Pio XII in cui il centro dell’attività pastorale è la chiesa e in questa il tabernacolo e il confessionale. Non sono centro campo sportivo, teatro, cinema, la stessa scuola. Noi siamo dell’avviso che i sacerdoti che scrivono su “Adesso” e don Milani che si amareggia e ci amareggia con le sue “Esperienze pastorali”, se avessero meditato questo limpido insegnamento della Chiesa non ci avrebbero rattristato con atteggiamenti e esperienze così lontani dalla tradizione del nostro apostolato2.

Molto più dura la “Civiltà cattolica” sino al pronunciamento del Santo Uffizio che il 20 dicembre 1958 ritira il libro dal commercio e ne proibisce la stampa e la traduzione. Senza appello i toni, per cui il testo esprime rigido ed esasperato classismo, propone metodi di lotta sindacali e politici, ribellione contro la società, denigrazione dei cattolici militanti e vede nella borghesia il nemico numero uno della povera gente. D’altronde, i consensi accordati all’opera da parte della stampa comunista bastano ad ingenerare il legittimo sospetto circa la sua ortodossia. Alle difese di parte comunista risponde Milani stesso: il comunismo non può farsi alfiere della libertà; inoltre se i preti corrompono un giovane, le Case del popolo, con la loro attività ricreativa, ne corrompono nove.

Le contraddizioni personali del sacerdote crescono davanti ai diversi atteggiamenti della Chiesa e alle contraddizioni nel mondo. Sente sulla pelle il dramma delle esecuzioni nella Spagna franchista, paese portato a modello dai settori conservatori del cattolicesimo, come i misfatti compiuti dal colonialismo francese in Algeria. L’obbedienza alla Chiesa è totale (è essa a dare i sacramenti), ma non mancano le critiche ad atteggiamenti della gerarchia, dai giudizi edulcorati sulla dittatura spagnola all’incomprensione del dramma del carcere.


L’obiezione di coscienza. La Lettera ai cappellani militari.


È la richiesta del riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare a costituire una cartina di tornasole. Nel 1962 in Italia è vietata la proiezione del film francese Non uccidere. Il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, lo fa proiettare. Scatta l’accusa, con conseguente processo, contro di lui. Anche Ernesto Balducci è accusato di apologia di reato per avere difeso giovani processati. Nel novembre 1962, Milani interviene ad una conferenza del pacifista e non violento Jean Goss e ricorda come la Chiesa abbia con molto ritardo accettato il principio dell’obiezione di coscienza e sia arrivata tardi alla condanna delle guerre. Un cappellano militare, presente nel pubblico, gli ricorda che i panni sporchi si lavano in famiglia. L’anno successivo, la Curia gli vieta la partecipazione ad un dibattito sulla scuola a Calenzano. È una figura scomoda.

Intanto, dal 1960 è comparsa la malattia che lo ucciderà, il linfogranuloma di Hodgkin con conseguenti tumori alle gambe e ai polmoni. Frequenti i ricoveri, progressiva la sofferenza fisica, sempre sopportata con coraggio e serenità.

Con un articolo sulla “Nazione” del gennaio 1963 un assistente diocesano accusa Giuseppe Gozzini, obiettore cattolico, proprio in base a principi cattolici. Replica Ernesto Balducci: la natura della guerra è cambiata con il nucleare, pertanto, in caso di guerra, i cattolici debbono disertare; massime sono l’ammirazione e la condivisione con chi testimonia la propria fede ed i propri principi. Scatta il processo contro di lui. Il teologo è assolto in prima battuta, ma condannato in appello a otto mesi di carcere. La sentenza dice che le affermazioni di Balducci forzano e piegano gli insegnamenti civili e che il concetto di guerra ingiusta non è conforme al pensiero della Chiesa.

L’11 febbraio 1965, l’assemblea dei cappellani militari della Toscana, riunita a Firenze vota un ordine del giorno che auspica che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale di Patria. Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà.

Interviene Milani: Cristo si è sempre dimostrato contrario alla violenza, ha addirittura rifiutato la legittima difesa. È più grave rivendicare e praticare l’obiezione o sparare su un villaggio indifeso? Il discorso si sposta dall’obiezione al concetto di obbedienza. I caduti sono morti per nulla o per idee sbagliate. La risposta ai cappellani è nettissima:

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi, però, avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria, e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri.

Milani continua ricordando che le armi della guerra sono orribili macchine per uccidere, le sue lo sciopero e il voto. Che cosa hanno insegnato i cappellani ai militari? L’obbedienza ad ogni costo, l’uccisione dei civili, l’uso delle armi atomiche e chimiche, la pratica della tortura, l’uso degli ostaggi, le guerre di aggressione, i processi sommari. L’esercito dovrebbe servire a difendere la Patria nei suoi veri valori: sovranità popolare, libertà, giustizia. In cento anni non si è conosciuta l’obiezione, l’obbedienza anche troppo.

La lettera è pubblicata da “Rinascita”, rivista del PCI. Il 6 marzo 1965.

La polemica cresce ed esplode. I cappellani replicano con durezza: Milani ha espresso malafede, ha gettato manate di fango sul popolo, ha insultato l’esercito italiano, meraviglioso protagonista della nostra storia, ha offerto un’interpretazione falsa degli eventi storici. Condanna un secolo intero, salvando solamente il breve periodo resistenziale.

Decine e decine le lettere di minaccia, di chiara marca fascista, che il sacerdote riceve. Minacce di morte si alternano ad insulti e all’accusa di aver venduto l’anima ai comunisti. Il quotidiano di destra “Roma” dà spazio ad articoli e lettere in cui si sommano ingiurie e derisioni: pazzo, ignorante, mascalzone, disfattista, traditore della Patria, prete comunista. Il settimanale “Lo specchio” del 21 marzo 1965 dedica quattro pagine più l’intera copertina con grande foto di Milani e il titolo scandalistico: La cellula in parrocchia. Rapporto sui preti rossi. Autore del servizio Pier Francesco Pingitore, futuro autore del cabaret romano Bagaglino. Lo stesso settimanale il 27 giugno pubblica una vignetta sul tema Il PCI propone il partito unico, con l’immagine di una manifestazione composta da militanti comunisti e sacerdoti. Il Partito liberale della zona affigge un manifesto in cui il parroco è definito complice e strumento della propaganda comunista e che chiude lapidariamente: Che la protesta contro chi offende i Caduti e gli Eroi della Patria sia unanime e definitiva, la punizione esemplare.

Lorenzo Milani e Luca Pavolini, direttore di “Rinascita”, vengono denunciati. Nella Lettera ai giudici, il sacerdote ritorna su principi che derivano dalla legge superiore, quella della coscienza: il dovere di ogni cittadino è di intervenire quando vengono violati i principi di giustizia, verità e libertà. Si è complici del male sia collaborando sia tacendo. Il motto I care esprime l’impegno, la volontà, la partecipazione e deve diventare la bussola del comportamento. È assurdo non applicare alle guerre le responsabilità dei delitti compiuti, come dimostra la continua crescita, nei conflitti, della percentuale di morti tra i civili.

Nonostante la durezza di queste affermazioni, il sacerdote non si presenta, per evitare la “teatralità” e le “speculazioni comuniste”, al processo che si chiude il 15 febbraio 1966 con l’assoluzione dei due imputati perché il fatto non costituisce reato. Nella sentenza di appello, sarà, invece, condannato il solo Pavolini (Milani scompare nel giugno 1967).


Intermezzo: il “dissenso cattolico”.


Non entriamo nella discussione sulla correttezza o meno dell’espressione dissenso cattolico comunemente impiegata. Chi non la accetta sostiene che non di dissenso si tratti, ma di impegno per la piena attuazione, sempre ritardata od evitata, delle scelte conciliari.

In Italia, il nodo fede – storia si trasforma in rapporto complesso tra fede e politica e non può non toccare la questione dell’unità politica dei cattolici. Il Movimento dei cattolici comunisti, la Sinistra cristiana non investono mai il dato ecclesiastico, la teologia e le pratiche. Le comunità di base, invece, tenteranno anche di rifondare una pratica di fede.

Negli anni ’50, la DC e l’Azione cattolica hanno posizioni conservatrici, mentre quelle più libere e progressive sono messe a tacere: Dossetti lascia l’attività di partito, Carretto si dimette da presidente della Azione cattolica, Mazzolari è emarginato, come Balducci e il gruppo milanese della Corsia dei servi.

I primi cambiamenti maturano su due filoni: quello politico (settori delle ACLI, della CISL, la corrente di Base nella DC) e quello ecclesiale, dalla riviste “Adesso” di Mazzolari e la genovese “Il gallo” alle esperienze del Cenacolo di Firenze e della Corsia dei servi.

Nel 1958, anno fondamentale per la riflessione anche in campo marxista, nascono le riviste “Testimonianze”, attorno al cattolicesimo fiorentino che fa capo a La Pira (tra i maggiori suoi attori Balducci, Gozzini, Zolo) e “Questitalia”, fondata a Venezia da Vladimiro Dorigo, dopo il suo sfortunato impegno politico – amministrativo con la DC. È contemporanea la pubblicazione di Esperienze pastorali.

È costante l’influsso della nuova teologia francese (Chenu, Congar). L’analisi del rapporto tra fede e politica da parte di Maritain ha grande peso nella formazione dei giovani della Federazione universitaria cattolica (FUCI).

Il pontificato di Giovanni XXIII, con le encicliche Pacem in terris, Mater et magistra, Gaudium et spes – a cui possono essere idealmente legate le encicliche della prima parte del pontificato del suo successore Paolo VI, Lumen gentium (sulla teologia dogmatica), Ecclesiam suam (sull’ecumenismo), Populorum progressio (sulle ingiustizie nel pianeta) – e con la convocazione del Concilio apre il mondo cattolico ad un maggior confronto con altre culture e altri pensieri. Per la prima volta, molti credenti incontrano il pensiero marxista senza la mediazione dell’autorità ecclesiastica; Giulio Girardi pubblica nel 1966 Marxismo e cristianesimo e nel 1971 Cristianesimo, liberazione umana e lotta di classe. Il “dialogo”, il confronto, cioè, tra mondi e pensieri diversi, lascia gradualmente il posto a Lucio Lombardo Radice: Lo scopo del dialogo è la fine del dialogo.

Il quadro politico – sociale, nazionale e internazionale, del periodo favorisce questo impegno e questo avvicinamento; Algeria, Vietnam, America latina, ripresa delle lotte operaie e unità fra sindacati per anni divisi. Le ACLI, al convegno di Vallombrosa, discutono la fine del collateralismo con la DC. Il mondo cattolico sente il dramma della realtà internazionale, della guerra, delle disparità sociali, si interroga sull’obiezione di coscienza, sulla proposta di Chiesa dei poveri e Chiesa povera.

Si aprono spazi per il confronto e per la prospettiva di unificazione con le altre Chiese, si discute sul ruolo dei laici e la separatezza sociale del sacerdote (da qui la rimessa in causa della teologia morale, sempre legata al tema della sessualità); non mancherà, davanti alle tragedie nel mondo un drammatico interrogarsi sul nodo violenza/nonviolenza.

Nel 1967 nascono oltre mille gruppi spontanei di base. Si sommano le proposte del Catechismo olandese, la tematica del celibato ecclesiastico, scelte simboliche e indicative del profondo disagio anche del clero: il cardinale Leger lascia la diocesi, la comunità di monaci di Cuernavaca lascia i voti per dare vita ad una comunità aperta. In Italia suscita scandalo l’occupazione, da parte degli studenti, dell’Università cattolica e scalpore la destituzione del cardinale di Bologna, Lercaro. Nel 1968, la conferenza dei vescovi latino – americani a Medellin si interroga sulla drammatica realtà sociale del continente; alle spalle le morti di padre Camillo Torres e del Che, da molti accomunati non solamente dalla tragica fine.

La preminenza della tematica politica su quella ecclesiale è ormai evidente. Nel ’68, “Questitalia” organizza a Bologna un convegno nazionale con il titolo Credenti e non credenti per una nuova sinistra, l’anno successivo (non partecipa “Questitalia”) a Rimini nuovo convegno: I gruppi spontanei e il ruolo politico della contestazione. La concezione dell’unità della Chiesa (e dei cattolici) è crollata. Dalla ACLI, con il presidente Livio Labor, nasce L’ACPOL da cui avrà vita il Movimento politico dei lavoratori (MPL), che nella sua breve esistenza proporrà una formazione cristiana orientata a sinistra, nella accettazione della lotta di classe e nel superamento dell’interclassismo.

Tanti, troppi i fatti, anche per un semplice elenco: l’occupazione del duomo di Parma, il caso Isolotto a Firenze, la costituzione della comunità di Oregina a Genova, le scelte di don Lutte e di dom Franzoni, la cui comunità sceglie l’impegno politico esterno. Nel 1971 da licenziamenti al “Regno” nasce il settimanale “COM nuovi tempi”, a cui collaborano anche significativi settori del mondo evangelico.

La contestazione studentesca porta a mettere in secondo piano la tematica ecclesiale, nel senso comune passa la distinzione tra fede religiosa e scelta politica, nella Bibbia e nella tradizione si ricercano motivazioni che giustifichino il nuovo impegno politico sino a teorizzare la Teologia della rivoluzione.

Nel 1973, dopo il fallimento elettorale del MPL (0,4% alla Camera) nasce Cristiani per il socialismo che riprende il nome dei cattolici di sinistra cileni favorevoli al governo Allende. La storia del movimento è segnata dai grandi fatti complessivi: il referendum sull’aborto, le scelte nella sinistra, i governi di unità nazionale con il privilegiare, da parte del PCI, il rapporto con la DC, letta come prevalente interprete del mondo cattolico, sino ad un calo a fine anni ’70, coincidente con il riflusso della “stagione dei movimenti”.

Nello stesso anno, ha grande peso, ma non avrà seguito, il convegno della diocesi di Roma, sui mali della capitale, con il messaggio di Franzoni La terra è di Dio. Le stesse comunità di base, con convegni, incontri e riflessioni, mettono in discussione l’uso ideologico della fede e accusano le strutture ecclesiali di essere strumenti di potere e di repressione. È il popolo di Dio che può ricostruire la vera comunione ecclesiale, riappropriandosi dei testi sacri, dei sacramenti, riproponendo una fede libera e dando ai fedeli la possibilità di esprimersi.

La dissoluzione di Cristiani per il socialismo, l’esaurimento o la perdita di potenzialità delle comunità di base e della sinistra cristiana nascono dalle modificazioni complessive nella società, dalla chiusura delle speranze e prospettive di trasformazione, da un distacco, già da tempo maturato, rispetto alla maggioranza del mondo cattolico, ma anche dalle modificazioni interne alla Chiesa stessa. Il pontificato di papa Woytila segna un ulteriore progressivo abbandono delle tematiche conciliari, l’indurimento della risposta verso ogni forma di dissenso, un maggiore sostegno ai movimenti integristi.


Sempre la scuola. Lettera a una professoressa.


Gli ultimi due anni di vita sono per Lorenzo Milani di lotta contro il male e la sofferenza fisica, sopportata con grande coraggio. Nel gennaio ’66 è ricoverato nella clinica di Careggi. Qui riceve dal cardinale Florit una lettera che lo addolora e sconvolge.

Il cardinale, senza apparenti asprezze, lo accusa di ferire gli avversari delle sue polemiche, di eccessiva rigidità, di non avvicinarsi a ricchi e potenti:

L’atteggiamento che tu assumi nelle tue polemiche, nelle tue denunce, esprime certamente un sincero amore della verità, di Dio, dei poveri, ma non di rado ferisce gli altri, oppure offre occasioni e pretesti a chi vuole colpire la Chiesa o non la conosce… Forse le cose che tu dici potrebbero esser dette con altrettante forza e con altro tono, in modo che anche i ricchi e i cosiddetti potenti (che poi sono i più poveri di fede e i più aridi di cuore) sentissero che nascono da un cuore che vuol bene anche a loro… Tu, don Milani, sei per natura un assolutista e rischi di produrre, specialmente fra i più sprovveduti di cultura e di fede, dei veri classisti, di destra o di sinistra non importa… Il fatto poi che sei rimasto per anni parroco di Barbiana, credo che sia dipeso da questo: i tuoi superiori hanno creduto di non riconoscere in te la necessaria disposizione alla carità pastorale, ma piuttosto lo zelo fustigatore che ti fa apparire dominatore delle coscienze prima ancora che padre3.

Lettera a una professoressa nasce in questo clima di solitudine, di isolamento, di contrapposizione anche ad ambienti intellettuali e progressisti. È forte l’estraneità verso politici e sindacalisti anche della sinistra, tutti appartenenti alla classe dei signorini o aspiranti tali. Riviste come “L’espresso” sono di destra, perché rivolte ad un pubblico elitario. Nel giugno 1966 mette una sorta di “blocco” alla sua scuola, impedendo che sia visitata da chi ha un titolo di studio superiore alla terza media.

Voleva dire: D’ora in poi parlerò solo con i contadini, con gli operai, con la povera gente. Fuori tutti i signorini4.

Lettera a una professoressa, pensata inizialmente come breve lettera aperta intende essere un inno di fede verso la scuola, la richiesta di un esame di coscienza da parte degli insegnanti. L’occasione è data dalle difficoltà scolastiche di ragazzi, che dopo l’impegno nella classe di Barbiana, hanno iniziato le medie superiori. Opposte la metodologia, i contenuti, le finalità:

Qui erano abituati a scrivere solo quando occorreva scrivere e mai come esercitazione. Parlare correttamente una lingua straniera là è considerato zero se non si conoscono le regoline. La storia moderna su cui sono ferrati là non la fanno nemmeno. La geografia politica su cui saprebbero tutto là non viene chiesta. La cultura sindacale ancora meno5.

In un servizio giornalistico, successivo alla morte di Milani, i ragazzi in questione discutono delle proprie difficoltà, dei propri percorsi; ne emerge una accusa alla scuola, all’insegnamento, alla cultura ufficiale che ha mille assonanze con la contemporanea spinta del primo movimento studentesco.

Per quanto riguarda me, posso dire che molte materie non mi andavano bene. Quando mi mettevo davanti all’Eneide, sì, la facevo perché bisognava farla, ma malvolentieri; e certe volte, rifiutavo di farla… Era una ribellione al sistema, per la sensazione di perdere il tempo (Luciano). Mi importava solo di prendere il diploma. Stavo diventando come i compagni di città che vanno a scuola per far contenti i genitori e o bene o male bisogna che riescano (Enrico). Ci si butta con slancio, con entusiasmo. Però, ad un certo momento si trova la difficoltà di alcune materie che non ci servono; e non si resiste (Michele).

L’accusa alla scuola è frontale. Questa non solo non tiene conto delle differenze di classe sociale, ma le riproduce ed amplia: per la prima volta non si chiede di offrire la cultura esistente a tutti, ma la si mette frontalmente in discussione, ritenendola adatta solamente ad una classe sociale, quella dei Pierini, figli di famiglie ricche e colte ed escludente, invece verso i Gianni, che provengono da famiglie di operai od, ancor più, di contadini:

Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece, la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo…Voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione. E Gianni non è più tornato neanche da noi6.

L’abbandono della scuola è grave anche a livello sociale, produce alienazione, l’accettazione totale di tutti i falsi miti che la società propone:

Noi non ce ne diamo pace. Lo seguiamo da lontano Si è saputo che non va più in chiesa, né alla sezione di nessun partito. Va in officina e spazza. Nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente: Il sabato va a ballare, la domenica allo stadio7.

Il testo critica i metodi didattici, l’orario di insegnamento, il voto, gli esami in cui quello che conta è la chiacchiera, parlare, parlare sempre…si dà un’enorme importanza al saper vendere.

Colpisce il linguaggio duro e radicale, l’assenza di ogni mediazione, la contrapposizione frontale tra un mondo operaio contadino e la società dei ricchi, dei colti. Gli stessi partiti non possono offrire alternative, perché diretti da chi proviene dalla classe dominante, quella che ha denaro e la falsa cultura scolastica che serve a comandare, dominare, sentirsi diversi.

Il testo sarà il più letto e citato, anche per la sua semplicità8, dal movimento studentesco, molti documenti del quale, pur nel loro impianto marxista, rifletteranno il classismo della scuola di Barbiana, il radicalismo di questa lettura cattolica che difende valori di una civiltà contadina che sta scomparendo davanti al violento ingresso di un neocapitalismo consumista e incolto che accresce, anziché cancellare le differenze (compito che toccherebbe, appunto, alla scuola). Non a caso, nell’aula, oltre alla scritta I care, compariva una frase di un componimento di un bambino latinoamericano: Yo escribo porque me gusta estudiar. El nino que no estudia no es buen revolucionario.

Milani muore il 26 giugno 1967. Il libro è uscito da un mese circa. La morte moltiplicherà l’interesse per il libro e farà conoscere molti aspetti della sua vita e della sua opera anche a chi lo aveva ignorato.

Pochi mesi dopo, la rivista “Testimonianze”, espressione di parte del cattolicesimo fiorentino, gli dedica un numero Lorenzo Milani, un prete che ripercorre il suo apostolato, la scelta del sacerdozio, i suoi scritti, la ricerca sociologica e l’autobiografia spirituale, l’impegno, quasi totalizzante per la scuola ed i poveri.

Quanti vocaboli possiedi? Al massimo 250: il tuo padrone non ne possiede meno di mille; questa è una delle ragioni per cui lui resta padrone e tu rimani nelle condizioni in cui sei, povero e servo… Ho visto studiare i poveri di Barbiana dodici ore al giorno, per 360 giorni all’anno; quelle stesse famiglie che avevano negato il proprio figlio alla scuola pubblica più vicina, quattro ore al giorno per 180 giorni all’anno, tiravano la cinghia, lavoravano giorno e notte per recuperare il tempo di chi avevano mandato a studiare da don Lorenzo9.

Testimonianze e valutazioni danno grande peso al sacerdote da poco scomparso, ma non ne nascondono le contraddizioni e le problematicità. La sua sfiducia verso partiti, sindacati e una certa politica poteva nascere:

dalla scarsa opinione che egli aveva dei partiti politici italiani, a cominciare dal PCI, ma soprattutto si inquadrava nella prospettiva di una società le cui strutture ideali egli non sapeva vedere – pur avvertendone forse l’insufficienza – fuori e oltre quelle caratterizzanti una civiltà di tipo pre-industriale, nella quale il sacerdote doveva, anche per il futuro, assumersi la funzione di coagulo di tutte le dimensioni di stimolo e di guida delle tensioni più progressiste che in essa si producessero. Ciò spiega a nostro avviso il progressivo isolamento in cui don Milani venne a trovarsi negli anni sessanta malgrado il pontificato giovanneo e malgrado le prospettive aperte dalla forza innovatrice del Concilio10.

Profeta disarmato? Gli utopismi, i moralismi, le parzialità di certe sue risposte e proposte esprimono – mi sembra – il limite a cui giungeva la sua visione del nostro tempo e in certo modo, il suo isolamento, che era anche rifiuto di una dialettica reale con altre culture e con altri mondi… In questo senso sì, profeta disarmato: come intelletto che testimonia e coglie una crisi, ma non sa preparare uno sbocco alla crisi… Per quel che posso giudicare dal mio punto di vista, in sostanza non affrontava ancora il problema dello sbocco collettivo da dare alla crisi: restava, in certo modo, al di qua di questa domanda. Ma questa non era la sua “parte” nella storia. E inoltre – non voglio dimenticarlo – egli giudicava muovendo da una gerarchia di valori diversa dalla mia, che è mondana e non altro11.

DON LORENZO MILANI E L’OBIEZIONE DI COSCIENZA


di Carlo Tagliani

1. Gli antefatti

Giovedì 11 febbraio 1965, trentaseiesimo anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, un gruppo di cappellani militari toscani in congedo si riunì a Firenze, presso l’Istituto della Sacra Famiglia. Al termine dell’incontro il presidente della sezione, don Alberto Cambi, propose la votazione di un ordine del giorno che definiva l’obiezione di coscienza “un insulto alla patria e ai suoi caduti”, “estranea al comandamento cristiano dell’amore” ed “espressione di viltà”.

L’ordine del giorno fu pubblicato, il mattino seguente, dal quotidiano di Firenze La Nazione.12

Don Lorenzo Milani, che aveva inserito la lettura dei giornali e il commento delle notizie tra le materie della sua scuola,13 ne venne a conoscenza tre giorni dopo e ne approfittò per tenere una lezione: lesse l’ordine del giorno ai suoi ragazzi e ne discusse con loro quella sera stessa. Fu l’occasione per approfondire i concetti di patria, di guerra, di pace e di libertà.14

Affinché tale lezione non rimanesse confinata nell’ambito della scuola di Barbiana ma potesse essere conosciuta dall’opinione pubblica, fu riassunta per iscritto e intitolata Lettera ai Cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965.


2. La lettera: struttura e principi compositivi

Lo scritto di don Milani15 si presenta sotto forma di lettera aperta indirizzata “Ai Cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965” (righe 1-3) ma pare destinata, in realtà, al pubblico più vasto ed eterogeneo possibile. Don Milani sembra ben consapevole che la sua lettera verrà letta, commentata e giudicata dall’opinione pubblica, come si può dedurre dalle righe 17-21 (“Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica è oggi più matura che in altri tempi e non si contenterà né di un vostro silenzio, né d’una risposta generica che sfugga alle singole domande...”).

Fin dalla prima, superficiale lettura si rimane “sconcertati” per almeno due versi:

- dal punto di vista retorico, la Lettera pare una perfetta applicazione di come non si dovrebbe sviluppare un’argomentazione convincente e persuasiva. Le norme più elementari in materia di adeguamento all’uditorio,16 di prudenza e di diplomazia vengono sistematicamente trasgredite o ignorate; secoli e secoli di raccomandazioni e di suggerimenti per rendere il pubblico benevolo, attento e arrendevole sembrano andare inesorabilmente in frantumi. Con il rischio di incorrere in spiacevoli conseguenze;17

- dal punto di vista della “materia del contendere”, si comprende quasi immediatamente che gli obiettori di coscienza al servizio militare di tipo assoluto e di tipo moderato, i veri “bersagli” del comunicato dei cappellani militari in congedo, non occupano il centro degli interessi di don Milani. Lo spazio riservato agli obiettori di coscienza al servizio militare (e solo a quelli di tipo moderato, dal momento che quelli di tipo assoluto non vengono neppur presi in considerazione) occupa, infatti, poco meno di un quarto dell’intera lettera e non trova posto in quella che, tecnicamente, viene denominata “argomentazione”.18

II solo tipo di obiezione di coscienza che pare interessare don Milani (e costituisce, infatti, il cuore della sua trattazione) è quella che dovrebbero porre i soldati nei confronti di ogni guerra e di ogni ordine dei superiori non conforme ai principi contenuti nella Costituzione e nel Vangelo.19 Per rendere il concetto più chiaro ed evidente, don Milani ripercorre un secolo di storia italiana cercando di dimostrare che, di tutte le guerre combattute dall’Italia, ben poche sono da ritenersi “giuste” alla luce della Costituzione e del Vangelo.

Destinata al pubblico più vasto ed eterogeneo possibile, la Lettera non mira tanto a sviluppare una argomentazione di tipo persuasivo (in grado, cioè, di valere per un uditorio particolare) quanto, piuttosto, una argomentazione di tipo convincente (in grado, cioè, di ottenere l’adesione di qualunque essere ragionevole).20 Non sembra, inoltre, “accontentarsi” di mirare ad ottenere dall’uditorio un effetto puramente intellettuale (la disposizione a riconoscere e ad ammettere la validità delle tesi espresse) ma, piuttosto, a provocare un’azione immediata o eventuale (il rifiuto di obbedire a ordini che siano in netto contrasto con la Costituzione e con il Vangelo).

Organizzata sul modello del genere giudiziale, la Lettera si compone di:

- esordio (righe 1-8);

- narrazione (righe 9-21);

- argomentazione (righe 22-203);

- epilogo (righe 204-213).


2.1. Esordio

Contiene la dedica ai destinatari “ufficiali” della lettera (“Ai Cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’ 11 febbraio 1965”, (righe 1-3), un preannuncio del giudizio dell’autore (e dei suoi allievi) sullo stile di vita dei medesimi (riga 4) e il motivo del ricorso alla lettera aperta (righe 9-10).

Fin dalle prime battute don Milani non rinuncia a evidenziare la propria diversità dai cappellani militari (“una vita che i ragazzi e io non capiamo”, riga 4) e ad erigere quella barriera di schieramenti contrapposti ­noi (don Milani e la sua scuola) contro “voi (i cappellani militari) - che si articolerà per tutta la lettera, dandole la forma di una “metafora della guerra”.21

La motivazione del ricorso alla lettera aperta (“ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente”, righe 9-10) appare, forse, un po’ debole. Sembra piuttosto improbabile, infatti, che “quelle stesse domande che don Milani avrebbe “da tempo voluto rivolgere privatamente ai cappellani militari siano le medesime che egli effettivamente formula, incentrate sul comunicato pubblicato da La Nazione la settimana precedente la stesura della lettera.


2.2. Narrazione

Definisce con maggior precisione l’allegazione dei fatti, in parte esplicitata nell’esordio, e si compone di due domande che aiutano a chiarire le ragioni del contendere. Don Milani domanda ai cappellani militari perché abbiano “insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo (riga 11) e perché abbiano usato “con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata vocaboli più grandi di loro (righe 15-16).

Delle tre virtù raccomandate dalle precettistiche per una buona argomentazione (la brevità, la chiarezza e la verosimiglianza) don Milani non sembra particolarmente interessato, in questa fase, ad incarnare la seconda: non specifica, infatti, su quale giornale e con quali parole i cappellani militari avrebbero “rotto il silenzio e gli obiettori di coscienza al servizio militare vengono definiti, alquanto genericamente, “dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo... Troppo poco per permettere un’adeguata ricostruzione dei fatti a chi non avesse seguito l’intera vicenda.

Prima di passare all’argomentazione don Milani coglie l’occasione per due digressioni:22

- un’insinuazione: può darsi che l’esempio dell’ “eroica coerenza dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo “bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore (righe 15-17);

- un avvertimento che ha quasi il sapore di una minaccia, di una dichiarazione di guerra: “Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica è oggi più matura e scaltra che in altri tempi e non si contenterà né di un vostro silenzio, né di una risposta generica che sfugga alle singole domande... (righe 17-21).


2.3. Argomentazione

È il cuore della Lettera. In essa don Milani confuta le tesi dei cappellani militari e adduce le proprie.

La base di partenza su cui egli fonda i propri ragionamenti interessano sia la sfera del reale (fatti, verità e presunzioni) sia quella del preferibile (valori, gerarchie, luoghi del preferibile).23


2.3.a. Fatti, verità, presunzioni

Don Lorenzo Milani considera fatti:24

- l’uso e l’abuso della parola Patria come scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere - quando occorra - tra Patria e valori più alti (righe 35-37);

- l’assoluto rifiuto di ogni violenza, compresa la legittima difesa, da parte di Gesù: un fatto talmente ovvio e scontato che fa dire a don Milani di non voler neppure prenderlo in considerazione nello sviluppo dell’argomentazione (righe 38-39);

- la realtà di ogni guerra come somma di disposizioni crudeli ed efferate (righe 51-54);

- il dovere dei cappellani militari di essere le guide morali dei soldati italiani (righe 64-65);

- il contributo dei cittadini - attraverso le tasse - al mantenimento dell’esercito e dei cappellani militari affinché difendano gli alti valori contenuti nel concetto di Patria: la sovranità popolare, la libertà e la giustizia (righe 66-69);

- le guerre combattute dall’Italia dal 1860 al 1960 (righe 73-176);25

- il riconoscimento e la regolamentazione del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare in molti Paesi “più civili dell’Italia (righe 182-185);

- l’art.3 del Concordato, che stabilisce e regolamenta il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare per i vescovi e per i preti (righe 186-188);

- la certezza che la Chiesa e lo Stato non hanno mai definito vili gli obiettori di coscienza al servizio militare (righe 189-191).

Le verità26 sulle quali don Milani basa tutta la propria argomentazione sono quelle che dovrebbero ispirare e dirigere il pensiero e l’azione di ogni buon cristiano e di ogni buon cittadino: il Vangelo righe 38-39) e la Costituzione (righe 40-43). E su questi parametri egli intende giudicare un secolo di guerre italiane.27

Don Milani - infine - sembra servirsi delle presunzioni28 per caratterizzare con tratti negativi i cappellani militari:

- ne presume il sentimento di superiorità nei confronti dell’opinione pubblica (righe 17-21); la concezione del mondo (righe 23-31); il tacito assenso - e, di conseguenza - la complicità con chi, in guerra, diede ordini palesemente ingiusti (righe 59-62); l’inattualità e la mancanza di futuro (righe 81-83);

- pone loro una serie di domande di cui presume, inevitabilmente, le risposte (righe 104-107; 112-118; 145-147; 172-174);

- ne presume i pregiudizi nei confronti dei sistemi democratico e socialista, la più completa insensibilità verso i nobili principi che li hanno ispirati e - ­cosa ancora più grave - l’appoggio acritico alla dittatura fascista (righe 148-166).


2.3.b. Valori, gerarchie e luoghi del preferibile

Costituiscono, forse, l’aspetto più caratterizzante della Lettera e ne rappresentano, in un certo senso, la ragion d’essere. II fulcro della Lettera, infatti, è costituito dal doloroso conflitto tra due valori: quello della coscienza e quello dell’obbedienza.

Per ben tre volte, nel corso della Lettera, don Milani fa espressamente riferimento ai valori:29

- per prendere le distanze da chi assolve acriticamente qualunque scelleratezza compiuta “per il bene della Patria” (righe 35-37);

- per enumerare i valori che, in nome dell’amor di Patria, i soldati sono chiamati a presidiare (righe 67-69);

- per condannare senza appello il regime nazifascista (righe 159-164).

E ancora:

- per opporre, ai presunti valori dei cappellani militari, i propri valori (righe 23-31);

- per accusare i cappellani militari e il quotidiano fiorentino La Nazione di razzismo (righe 104-109).

Le gerarchie,30 nella Lettera, sono presenti in gran numero. Don Milani se ne serve soprattutto per mettere in luce le differenze di mentalità che contrappongono lui e i suoi ragazzi ai cappellani militari e per evidenziare i differenti gradi di moralità che caratterizzano le azioni di chi segue i dettami della propria coscienza e di chi obbedisce ciecamente a qualunque ordine.

Dei luoghi del preferibile,31 don Milani pare prediligere - nello sviluppo della propria argomentazione - quelli legati alla qualità32 e all’ordine.33

Appartengono ai primi la consapevolezza che:

- chi crede a ideali grandi non esita a pagare di persona per “incarnarli” e testimoniarli;

- il numero di obiettori di coscienza al servizio militare rappresenta una sparuta minoranza rispetto alla moltitudine di soldati che combatterono guerre ingiuste;

- l’Italia, in un secolo di storia, ha combattuto una sola guerra «giusta»;

- l’obiezione di coscienza al servizio militare è stata - nella storia patria degli ultimi cento anni - un bene raro e prezioso.

Appartengono, invece, ai secondi:

- il rifiuto del concetto di “Patria in sé”;

- l’appellarsi al Vangelo e alla Costituzione per giudicare un secolo di storia italiana.


2.3.c. Tecniche argomentative

Delle tecniche argomentative individuate da Perelman e Olbrechts-­Tyteca,34 quelle maggiormente utilizzate da don Milani nell’elaborazione della Lettera sono quelle costituite dagli argomenti quasi logici che ricorrono a relazioni di contraddizione, di identità totale e parziale e di transitività.35 E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che già nella premessa egli invita i cappellani militari a prendere sui serio le sue parole, a non controbattere alle sue argomentazioni con un silenzio o con una risposta generica: “Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste” (righe 17-21).

Don Milani rileva contraddizioni e incompatibilità:36

- tra le proprie idee di Patria, liceità della guerra e scelta delle armi per arginare e contenere i conflitti sociali e quelle che presuppone nei cappellani militari (righe 23-31);

- tra il significato profondo racchiuso nella parola Patria (riga 63-69) e il suo utilizzo improprio (righe 35-37);

- tra gli insegnamenti contenuti nel Vangelo (righe 38-39) e gli insegnamenti dei cappellani militari ai soldati (righe 51-58; 199-203);

- tra gli articoli 11 e 52 della Costituzione italiana (righe 40-43) e un secolo di storia patria (righe 75-176);

- tra i principi che avrebbero dovuto ispirare la formazione e l’educazione dei soldati (rispetto della Costituzione, della sovranità popolare, della liberta, della giustizia) e quelli che li hanno realmente ispirati (l’obbedienza a ogni costo). “E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza (righe 59-60);

- tra l’elogio dell’obbedienza richiesta ai soldati, che i cappellani militari esaltano “senza nemmeno un «distinguo» che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve obbedire agli uomini o a Dio?» (righe 178-180), e l’ingiuria verso gli obiettori di coscienza al servizio militare (righe 180-181);

- tra il disprezzo dei cappellani militari nei confronti dell’obiezione di coscienza al servizio militare e l’occasione del loro incontro a Firenze presso l’Istituto della Sacra Famiglia (righe 186-188);

- tra la definizione di obiezione di coscienza al servizio militare come “espressione di viltà” da parte dei cappellani militari e il giudizio della Chiesa e delle autorità giudiziarie (righe 189-191).

Le identità totali37 si riferiscono soprattutto alla definizione del significato di parole cardine dell’argomentazione. Don Milani non si limita a chiarire il significato dei termini da lui usati, ma presuppone ­addirittura di conoscere il significato dei termini utilizzati dai cappellani militari. Essi riguardano i concetti di:

- Patria. Don Milani ne presuppone la definizione da parte dei cappellani militari e ne enuncia la propria (righe 23-32);

- decimazione (righe 55-56). La definizione - con tutte le maiuscole al posto giusto - viene utilizzata da don Milani con evidenti fini argomentativi. II suo intento e, probabilmente, sviscerare la parola “decimazioni” (parola asettica e vaga, come tutte le parole di orrore e di morte) per metterne in luce il significato crudele e drammatico;

- ruolo e responsabilità dei cappellani militari. Don Milani si serve di una serie di definizioni per “inchiodare” i cappellani militari alle proprie responsabilità (righe 65-70). Ne riconosce il ruolo istituzionale (riga 65-66), ne sottolinea l’importanza (righe 66-67), definisce gli ideali cui dovrebbe ispirarsi il loro ministero (righe 67-69) e - con la precisione di un abile spadaccino - tenta l’affondo (righe 69-70);

- prima guerra mondiale. Don Milani fa propria l’espressione di papa Benedetto XV, che - nella nota alle potenze non belligeranti dell’agosto 1917 - la definì “una «inutile strage» (riga 117-118);

- democrazia (righe 154-155), socialismo (righe 156-157) e nazi-fascismo (righe 159-­164). Don Milani conia una definizione per ciascuno dei tre più significativi sistemi di governo del Novecento e non esita a definire la democrazia e il socialismo “per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data (righe 152-153), pur con “vistosi difetti e errori (righe 158-159).

Per quanto riguarda le identità parziali, esse si rifanno alla regola di giustizia38 e agli argomenti di reciprocità.39

Possono ricondursi alla regola di giustizia:

- l’analisi di un secolo di storia italiana alla luce degli articoli 11 e 52 della Costituzione (righe 73-176);

- l’analisi del comportamento dei cappellani militari alla luce della coerenza evangelica e dei principi della Costituzione (righe 32-33; 177-181; 199-203).

Possono, invece, ricondursi agli argomenti di reciprocità:

- il diritto, più volte ribadito da don Milani, di contrapporre alle convinzioni (che egli presuppone) dei cappellani militari le proprie convinzioni a proposito di Patria e di armi di lotta sociale (23-30);

- l’offerta e la richiesta di rispetto ai cappellani militari per l’altrui punto di vista (righe 32-33). È curioso notare come la richiesta di reciproco rispetto sia solo apparente. Don Milani - infatti - dichiara che rispetterà il punto di vista dei cappellani militari a condizione che sia giustificato alla luce del Vangelo o della Costituzione, ma chiede ai cappellani militari rispetto incondizionato per il punto di vista altrui;

- la composizione delle forze contendenti nell’unica guerra “giusta” combattuta in cento anni di storia italiana (righe 170-171);

- l’auspicio di cose diverse, dettato dalla diversità di opinioni e di vedute in merito all’obiezione di coscienza al servizio militare (righe 204-207).

Gli argomenti di transitività,40 occupano senza dubbio un ruolo di primissimo piano:

- gran parte della struttura portante della Lettera poggia - infatti - sulla seguente implicazione:

a). Le guerre combattute in conformità agli articoli 11 e 52 della Costituzione possono essere considerate guerre “giuste” (premessa maggiore).

b). La guerra x non è stata combattuta in conformità agli articoli 11 e 52 della Costituzione (premessa minore).

c). La guerra x non può essere considerata una guerra giusta (conclusione);


2.4. Epilogo

Intenso. Stringato. Privo di fronzoli. Dopo aver argomentato in lungo e in largo le ragioni del proprio dissenso verso il comunicato dei cappellani militari, don Milani propone le proprie conclusioni. E, ancora una volta, lo scontro e totale.

Contrappone - all’auspicio dei cappellani militari che “abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale di Patria - l’auspicio che “abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità” (righe 204-207). E ricapitola - se ancora ce ne fosse bisogno - i motivi del proprio dissenso: “Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima (righe 208-210).

L’ultima frase, infine, è riservata alla mozione degli affetti. E sembra cercare una qualche forma di pacificazione e di dialogo con i cappellani militari: “Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano” (righe 211-213).


3. Le conseguenze

Stampata in stretta economia in tremila copie, la Lettera venne spedita agli amici della scuola di Barbiana, ai preti della diocesi di Firenze, alle strutture sindacali toscane di base e a tutti i quotidiani e periodici italiani, cominciando da quelli cattolici.

Due quotidiani “di sinistra” (l’Unità e Avanti!) ne riportarono ampi stralci41 e il settimanale culturale del Partito comunista italiano (Rinascita), diretto da Luca Pavolini, la pubblicò sabato 6 marzo in versione integrale.

Come prevedibile, la pubblicazione della lettera di un prete in aperta polemica contro la storia, i miti e gli ordinamenti legislativi della Patria su un giornale comunista fu al centro di numerose critiche, polemiche e dibattiti.

In seguito alla denuncia di un gruppo di ex combattenti alla Procura di Firenze, don Milani e Pavolini vennero rinviati a giudizio per incitamento alla diserzione e alla disubbidienza militare.42

Il processo si svolse a Roma, sede della redazione di Rinascita. La prima udienza ebbe luogo lunedì 30 ottobre 1965. Non potendo partecipare perché gravemente malato, don Milani inviò, quale “memoria difensiva”, una lettera ai giudici.

Tra una sessione e l’altra, il processo si concluse il 15 febbraio 1966 con l’assoluzione degli imputati “perché il fatto non costituisce reato”. Il pubblico ministero, però, ricorse subito in appello. Il nuovo processo venne fissato per il 28 ottobre 1967, ma don Lorenzo Milani non poté essere presente perché morì, a soli quarantaquattro anni, il 26 giugno di quell’anno.

I giudici di secondo grado condannarono don Milani e Pavolini a cinque mesi e dieci giorni. A proposito di don Milani scrissero: “Il reato è estinto per la morte del reo”.


I cappellani militari e l’obiezione di coscienza (La Nazione - Venerdì 12 febbraio 1965)


Nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l’Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana.

Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione don Alberto Cambi, e stato votato il seguente ordine del giorno:

I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello spirito del recente congresso nazionale dell’associazione, svoltosi a Napoli, tributano il loro reverente e fraterno omaggio a tutti i caduti per l’Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale di Patria.

Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta «obiezione di coscienza» che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, e espressione di viltà

L’assemblea ha avuto termine con una preghiera di suffragio per tutti i caduti.

Ai Cappellani Militari Toscani

che hanno sottoscritto il comunicato

dell’11 febbraio 1965


Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita.

5 Una vita che i ragazzi e io non capiamo.

Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo ad

organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola.

Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non

10 posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

Primo perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno,

ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di

quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.

15 Secondo perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata,

vocaboli che sono più grandi di voi.

Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica e oggi più matura che in altri tempi e

non si contenterà né di un vostro silenzio, né d’una risposta generica che sfugga alle

singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono

20 argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella

fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.

Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che,

nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati

25 e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli

altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di

insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a

vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono

combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che

30 voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e

vedove. Le uniche armi che approvo sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.

Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla

luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri.

Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.

35 Certo ammetterete che la parola Patria e stata usata male molte volte. Spesso essa non

è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo

scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei.

Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù

era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.

40 Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.

Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...”.

Art. 52: “La difesa della Patria e sacro dovere del cittadino”.

Misuriamo con questo metro le guerre cui e stato chiamato il popolo italiano in un

45 secolo di storia.

Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli

altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che

dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della

Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a

50 tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico.

Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se

l’ordine era il bombardamento dei civili, una azione di rappresaglia su un villaggio

inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi atomiche,

batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione degli ostaggi, i processi sommari

55 per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e

fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente

aggressione, l’ordine di un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?

Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne

60 sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere

che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri “superiori” sfidando la prigione o

la morte? Se siete ancora vivi e graduati e segno che non avete mai obiettato a nulla.

Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la

più elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza.

65 Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le

guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi

abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi

l’anno) l’esercito, e solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto

contiene: la sovranità popolare, la liberta, la giustizia. E allora (esperienza della storia

70 alla mano) urgeva più che educaste i nostri soldati all’obiezione che all’obbedienza.

L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo poco. L’obbedienza,

per disgrazia loro e del mondo, l’han conosciuta anche troppo.

Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.

75 1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell’idea di Patria, tentò di buttare a mare un

pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c’erano diversi ufficiali

napoletani disertori della loro Patria. Per l’appunto furono i briganti a vincere. Ora

ognuno di loro ha in qualche piazza d’Italia un monumento come eroe della Patria.

A 100 anni di distanza la storia si ripete: l’Europa è alle porte.

80 La Costituzione e pronta a riceverla: “L’Italia consente alle limitazioni di sovranità

necessarie...”. I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, cosi come tutti

ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell’Europa. Le divise dei

soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei.

La guerra seguente 1866 fu un’altra aggressione. Anzi c’era stato un accordo con il

85 popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l’Austria insieme.

Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano

molto la loro secolare Patria, tant’e vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant’e vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. II Gregorovius spiega nel suo diario: “L’insurrezione annunciata

90 per oggi, e stata rinviata a causa della pioggia”.

Nel 1898 il re “Buono” onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per

i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L’avversario era una folla di

mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. II generale li

prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano

95 il privilegio di non pagare le tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con

qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti

furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore.

Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era

rincarata.

100 Eppure gli ufficiali seguitarono a fargli gridare “Savoia” anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non

minacciava i confini della nostra Patria. Era l’unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.

Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria

105 Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d’un bianco più che

quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l’uccisione di 60 bianchi nel

Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di

cercarne i mandanti qui in Europa?

110 Idem per la guerra di Libia.

Poi siamo al ‘14. L’Italia aggredì l’Austria con cui questa volta era alleata.

Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se

volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva

evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che fu poi

115 ottenuto con 600.000 morti?

Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la

Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una “inutile strage”? (l’espressione non e d’un vile obiettore di coscienza ma d’un Papa

canonizzato).

120 Era nel ‘22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese.

Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l’avessero educato a guidarsi

con la Coscienza invece che con l’Obbedienza “cieca, pronta, assoluta” quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50 milioni di morti). Così la Patria andò

in mano ad un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina: riempiendosi la

125 bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei

sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra “Patria”, quelli

che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che

parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto

incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa).

130 Nel ‘36, 50.000 italiani si trovarono imbarcati in una nuova infame aggressione:

avevano avuto la cartolina di precetto per andar “volontari” a aggredire l’infelice

popolo spagnolo.

Erano corsi in aiuto d’un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo

governo e al popolo suo sovrano. Coll’aiuto italiano e al prezzo d’un milione e mezzo

135 di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei

prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d’ogni liberta civile e

religiosa.

Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura,

uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d’aver difeso allora la Patria o di tentare di

140 salvarla oggi. Senza l’obbedienza dei “volontari” italiani tutto questo non sarebbe

successo.

Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall’altra parte, non

potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l’appunto questi ultimi erano

italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato.

145 Avete detto ai vostri soldati che cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco?

Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve

obbedire?

Poi dal ‘39 in la fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei

Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto,

150 Jugoslavia, Russia).

Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico.

L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili

che l’umanità si sia data.

L’uno rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra,

155 libertà e dignità umana ai poveri.

L’altro il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.

Non vi affannate a rispondere accusando l’uno o l’altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c’era di qua dal fronte. Senza

160 dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d’ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d’ogni giustizia e d’ogni religione. Propaganda dell’odio e

sterminio d’innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore

dispersa nel mondo e sofferente).

165 Che c’entrava la Patria con tutto questo? E che significato possono più avere le Patrie

in guerra da che l’ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di Patrie?

Ma in questi cento anni di storia italiana c’e stata anche una guerra “giusta” (se guerra

giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.

170 Da un lato c’erano dei civili, dall’altro dei militari. Da un lato soldati che avevano

obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato.

Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i “ribelli”, quali i “regolari”?

È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i “ribelli”?

175 Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l’ingiusta guerra che aveva scatenato. Le

Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati.

Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall’obbedienza militare. Quell’obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un “distinguo” che vi riallacci alla parola di San Pietro: “Si deve obbedire

180 agli uomini o a Dio?”. E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in

carcere per fare come ha fatto San Pietro.

In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro

di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri,

non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in

185 prigione.

Del resto anche in Italia c’e una legge che riconosce un’obiezione di coscienza. È

proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. II suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti.

In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né

190 contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito

alla legge degli uomini, non che sono vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s’e mai sentito dire che la viltà sia

patrimonio di pochi, l’eroismo patrimonio dei più?

Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei

195 profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.

Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l’ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?

Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l’esempio e il

200 comandamento del Signore è “estraneo al comandamento cristiano dell’amore” allora

non sapete di che Spirito siete! Che lingua parlate? Come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? Se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno

tacete!

Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: auspichiamo che

205 abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai

soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali

di Giustizia, Libertà, Verità.

Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non

facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l’errore, fra la morte

210 di un aggressore e quella della sua vittima.

Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da

una propaganda d’odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria

calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.

Don Lorenzo Milani





40 ANNI SENZA IL CHE

Sergio Dalmasso


Gli anniversari.


Il Che è entrato e resta, a decenni dalla morte, nella coscienza di milioni di uomini e donne, soprattutto di giovani per l’esempio che ha trasmesso e per l’elaborazione teorica che lo colloca tra le grandi figure del movimento comunista e del marxismo.

Se la sua morte suscita sdegno ed emozione nel mondo intero (vedi Froilan GONZALEZ e Adys CUPULL, Il Che eroe globale, in “L’Ernesto”, luglio - agosto 2007), l’immagine prevalente è però quella del guerrigliero eroico, dell’uomo, cioè, che giunge, per un ideale, al sacrificio estremo. Elaborazione teorica ed originalità scompaiono davanti alla lettura eroica e “romantica”.

In Italia ne hanno discusso Saverio Tutino sulla stampa del PCI e Sergio De Santis su “Mondo nuovo”, settimanale del PSIUP, l’unico ad accennare, già nel 1965, al non lineare rapporto Castro- Guevara43. Negli anni immediatamente successivi i testi migliori, anche se essenziali sono La vita di Che Guevara44 di Filippo GAJA e Che cosa ha veramente detto Che Guevara di Antonio MELIS.

La figura del Che subisce un’eclisse per circa vent’anni. Nella stessa Cuba rimane un’icona, un modello per i giovani (Saremo come il Che), ma nel clima di appiattimento sull’Unione sovietica, sul suo modello economico, sociale e politico e di conseguente abbandono delle specificità del primo periodo della scelta socialista cubana, è scarsamente studiato ed analizzato. Diverse sono state le scelte economiche e anche differenti sono i riferimenti internazionali.

Il decennale della sua morte (1977) passa sotto silenzio. L’acutizzarsi del fenomeno terrorista in alcuni paesi occidentali rende difficile riproporre l’ipotesi rivoluzionaria di chi è caduto combattendo (oltre a lui padre Camillo Torres, purtroppo dimenticato e mille altri), ma la stessa nuova sinistra sta entrando in una fase di difficoltà, di ripensamento, di rimessa in discussione dei suoi fondamenti (la crisi del marxismo tocca strati larghissimi e il fallimento delle ipotesi di rivoluzione a breve termine e di tante analisi porta a radicali modificazioni delle scelte di vita).

Totalmente diverso è il ventennale (1987). Sempre più si evidenziano i segni di crisi del “campo” socialista che la svolta di Gorbaciov evidenzia senza riuscire a sciogliere, sempre più si affermano nel mondo il pensiero e le politiche del liberismo che sembrano cancellare qualunque ipotesi alternativa; la stessa Cuba si trova davanti alla drastica scelta se seguire o meno l’ipotesi gorbacioviana. Il rifiuto di questa porta ad un ripensamento sulle scelte “filosovietiche” e conseguentemente porta alla riscoperta del Che. Esempio è la pubblicazione di un testo, per anni bloccato, sul suo pensiero economico e sul carattere “eversivo” di questo (vedi Carlos TABLADA, Il pensiero economico di Ernesto Che Guevara, premio Casa de las Americas, 1987).

Anche nei paesi occidentali l’interesse e l’amore per l’eroe argentino - cubano esplodono. Libri, saggi, articoli, iniziative, servizi televisivi, non ultimo il moltiplicarsi di bandiere, sciarpe, spille, distintivi… rendono popolare il suo volto, soprattutto quello fissato dalla celebre foto di Korda.

In Italia, il testo di Roberto MASSARI, Che Guevara, pensiero e politica dell’utopia (1988) offre una biografia in cui si intrecciano gli avvenimenti e l’analisi politica. Usando una documentazione spesso inedita, l’autore ricostruisce la fanciullezza e la giovinezza, ma soprattutto le posizioni eterodosse del rivoluzionario argentino, nel dibattito economico, nelle scelte internazionali e nella critica al burocratizzarsi del partito. La stessa Erreemme, quasi caratterizzandosi come la “casa editrice del Che” pubblica, negli anni successivi, molti testi, fra cui gli Scritti scelti ed Ernesto Che Guevara, uomo, compagno, amico che contiene numerose testimonianze.

Di grande importanza il convegno all’università di Urbino, aperto e diversificato nelle sue posizioni, i cui atti sono pubblicati dalla rivista “Latinoamerica”. Significative le relazioni di Guido Quazza e di Enzo Santarelli che al rivoluzionario latinoamericano dedica, nel periodo successivo, con Guillermo Almeyra, Guevara, il pensiero ribelle.

Diversa, anche se non lineare la lettura dell’ “Unità” in un supplemento (ottobre ’87) che oltre a cento fotografie, contiene saggi di Chiaromonte, Spinella, Tutino, Petruccioli, Oldrini, Cavallini.

Contemporaneamente, a Cuba, a partire dal rifiuto della politica gorbacioviana, il Che torna figura fondamentale, centrale nei discorsi di Castro, e vengono riproposti alcuni suoi scritti. Significativo il testo di Carlos Tablada, per anni non pubblicato, sul suo pensiero economico.

Il venticinquennale segna un’ulteriore crescita dell’attenzione e dell’interesse.

Il quotidiano “Il Manifesto”, oltre a quattro fascicoli specifici dal titolo significativo Il primo a sinistra, ripubblica scritti già comparsi sul giornale in un volume Ernesto Guevara, nomade dell’utopia (GARZIA, ROSSANDA, GALEANO, SORIANO, FLORES). Numerosissimi gli incontri pubblici, i dibattiti, gli approfondimenti. La casa editrice Erreemme produce numerosi volumi, spesso anche problematici, per tutti Cuba, fra continuità e rottura di Jeanette HABEL.

A quattro mani è scritto Guevara, il pensiero ribelle del militante latinoamericano Guillermo ALMEYRA e dello storico italiano, tanto attento all’America latina, Enzo SANTARELLI, centrato sulle radici del pensiero e della pratica del Che, sul suo internazionalismo, sulla ricerca di una strategia tricontinentale.

Discutibile la pubblicazione dei diari scritti durante la breve stagione congolese. Il testo non è pubblicato integralmente e, inoltre, risulta intervallato da testimonianze e interventi di altri rivoluzionari. Significativo, invece, il racconto dei viaggi giovanili, in motocicletta, in Latinoamerica, da cui verrà tratto il film I diari della motocicletta. Ne emerge una immagine poco politica, molto naive e giovanile, un diario di formazione in cui si sommano elementi esistenziali e le prime acquisizioni politiche. Cresce il mito, in un intreccio di amore, politica e rivolta che si accompagnerà per sempre al rivoluzionario latinoamericano.

Il trentesimo segna ancora maggiormente il trionfo postumo. Memorie di guerriglieri sopravvissuti all’impresa boliviana (Pombo e Benigno), fumetti (Che Guevara. Per cominciare di Sergio SYNAY e Miguel ANGEL SCENNA), testimonianze, ricordi, ma soprattutto biografie complessive che si sommano a quella di Massari.

Jean CORNIER con Le battaglie non si perdono, si vincono sempre. La storia di Ernesto Che Guevara offre un lavoro puntuale, ma scarsamente interpretativo, Jon LEE ANDERSON, in Che, una vita rivoluzionaria, usa una immensa mole di materiale raccolto in anni di ricerca, ma da questo emerge una immagine riduttiva, “notarile” di Guevara, di cui l’autore non comprende o sottovaluta le dimensione politiche ed etiche delle scelte. Di altra qualità è Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Ernesto Che Guevara di Paco IGNACIO TAIBO II, frutto di ricerca accurata, ma anche di grande passione politica. L’esempio, la lotta contro l’ingiustizia, lo sdegno morale, il disinteresse costituiscono l’essenza, attualizzabile, del pensiero e dell’opera del Che.

Egualmente monumentale la biografia Il Che, una vita leggendaria di Pierre KALFON, diplomatico francese, che tenta di ricostruire l’uomo, le sue passioni, la collocazione nel periodo e nel continente. Critico, ma molto documentato è Saverio TUTINO in Guevara al tempo di Guevara che accentua la sottolineatura del contrasto tra Castro e Guevara e l’accusa per l’isolamento che questi avrebbe vissuto a Cuba, in Congo, in Bolivia. Da una ipotesi interpretativa critica trae conseguenze opposte Antonio MOSCATO in Che Guevara, storia e leggenda che del Che difende sia le proposte economiche, sia la scelta di tentare di dar vita ad un secondo Vietnam.

Il quarantesimo anniversario (2007) cade in una fase di grandi trasformazioni in America latina, con numerosi paesi che hanno compiuto scelte impensabili sino al decennio scorso e nel corso del passaggio di consegne, in Cuba, da Fidel a Raul. Non è questa, ovviamente, la sede per una discussione su questi due nodi45.


La vita.


Ernesto Guevara nasce a Rosario, in Argentina, il 14 giugno 1928. La famiglia è di media borghesia e nutre idee democratiche e progressiste, come testimonierà il suo sostegno alla causa repubblicana nel corso della guerra civile spagnola (1936- 1939).

Fin da piccolo è colpito dall’asma. La famiglia si sposta sulla sierra di Cordoba, zona più propizia alla sua salute; inizia a studiare seguito dalla madre cui sarà sempre legatissimo.

Nel dopoguerra si iscrive alla facoltà di Medicina; nel 1951, con l’amico Alberto Granado, biologo, inizia in motocicletta un lungo viaggio in vari paesi dell’America latina: Cile, Perù (dove soggiornano e lavorano in due lebbrosari), Colombia, Venezuela, sino agli Stati Uniti.

Nel 1952 rientra in Argentina e si laurea. La sua irrequietezza e il desiderio di conoscenza “sul campo” lo spingono a ripartire immediatamente. Raggiunge il Guatemala dove compie, per vivere, piccoli lavori. Qui il governo riformista di Jacobo Arbenz ha toccato gli interessi di alcune compagnie americane (fra tutte la United Fruit). Il 17 giugno 1954 scatta il colpo di stato appoggiato dagli USA che abbatte, con truppe mercenarie, questa esperienza quasi unica nel continente.

Guevara si sposta in Messico, dove scrive il suo primo articolo politico: la sconfitta di Arbenz è dipesa dal fatto di non avere dato le armi al popolo e di aver fatto affidamento sull’esercito. Questo principio resterà una costante per tutto il corso della sua vita. Incontra e sposa Hilda Gadea.

E’ in contatto con esuli cubani che progettano una spedizione militare verso l’isola. Nel luglio 1955 conosce Fidel Castro.

La spedizione lascia il Messico verso Cuba nel novembre 1956, con la piccola motonave Granma. L’inizio è disastroso. Dopo lo sbarco restano pochissimi uomini. L’insurrezione a Santiago, vera capitale del tentativo rivoluzionario, è stata stroncata.

Miracolosamente, però, la guerriglia riesce a sopravvivere, a riallacciare contatti con le città, i movimenti sindacale e studentesco, a radicarsi ed a crescere. Guevara, ormai soprannominato Che, abbandona il ruolo di medico per assumere quello di comandante militare. Dall’agosto 1958 la sua colonna punta verso la capitale. Dal 28 al 31 dicembre la battaglia decisiva, quella di Santa Clara. Il 2 gennaio è lui ad entrare all’Avana.

Dopo la vittoria della rivoluzione, oltre alla cittadinanza cubana, ottiene i primi incarichi. Visita moltissimi paesi, soprattutto del terzo mondo e del campo socialista (Cecoslovacchia, URSS, Cina, Corea, RDT) ed è nominato direttore del Banco Nacional.

Nel 1961 e 1962 è comandante militare del fronte est, durante la tentata invasione di truppe mercenarie (lo sbarco di Playa Giron) e la “crisi dei missili” (blocco contro l’isola dove l’URSS sta costruendo basi missilistiche). Dalla primavera 1961 Cuba è sottoposta al blocco economico proclamato dagli USA e accettato dalla più parte dei paesi del mondo. Contemporaneamente, Castro ha proclamato la natura socialista della rivoluzione ed è iniziata la collaborazione economica con l’est Europa e con l’URSS (zucchero in cambio di petrolio e di assistenza tecnica), con inevitabili conseguenze politiche.

Nel 1961 partecipa alla Conferenza panamericana di Punta del Este, in Uruguay; tra il 1962 e il 1964 continua le sue missioni internazionali (cresce l’interesse per la realtà africana).

Nel febbraio 1965, il suo ultimo intervento pubblico, ad Algeri, fortemente polemico anche verso i “paesi socialisti”. Rientra all’Avana il 14 marzo 1965 e quindi non appare più in pubblico.

Decide di tentare clandestinamente di aprire altri fronti rivoluzionari nel mondo. È nell’ex Congo belga. L’esperienza è fallimentare. Il Che ritorna al disegno di una rivoluzione continentale in America latina.

Nel novembre 1966 è in Bolivia. Dopo i primi mesi, si moltiplicano le difficoltà e l’isolamento cresce. Ai primi di ottobre viene catturato dopo uno scontro a fuoco. Si decide per la sua morte. L’esecuzione avviene il 9 ottobre 1967. La commozione nel mondo è enorme. Inizia il mito del Che.


Il pensiero di Guevara subisce una velocissima evoluzione nel giro di pochi anni, tra il 1959 e il 1967. Simile o forse ancor più rapida l’evoluzione di altri rivoluzionari del tempo, per tutti Malcolm X e Lumumba, a significare le profonde trasformazioni e spinte che il mondo vive negli anni ’60.

La sua lezione, che lo rende, ancor oggi, attuale ed utile, non è, quindi, solamente quella data dall’esempio e dal sacrifico (il guerrillero eroico, l’eroe romantico, l’immagine cattolica della sua morte) ma da un marxismo che nasce ed evolve nei fatti e nel crogiuolo irripetibile che precede la stagione del ’68. L’internazionalismo, la critica al burocratismo, il rifiuto di una visione monolitica del partito ne sono i cardini e collocano Guevara, se non al medesimo livello, accanto a Rosa Luxemburg, a Gramsci, a Mariategui, al Trotskij sconfitto nel dopo rivoluzione come strumento per ripensare un marxismo critico ed un pensiero capace di analizzare e di trasformare il presente.


L’internazionalismo.


Il quadro internazionale subisce un profondo cambiamento a cavallo fra i due decenni ’50 e ’60.

Se gli anni ’50 già vedono le prime incrinature nel sistema bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale, con la sconfitta francese in Vietnam (1953), l’emergere dei paesi ex coloniali del terzo mondo, evidentissima nella conferenza di Bandung (1955) e i primi segni di crisi del blocco sovietico (repressione dello sciopero a Berlino - 1953 - e della sollevazione in Ungheria - 1956 -), il periodo successivo vede una nettissima accelerazione.

Nel gennaio 1959 vince la rivoluzione cubana che negli anni immediatamente successivi radicalizza le proprie scelte sino all’opzione socialista proclamata da Fidel Castro nel 1961, in coincidenza con l’inizio del blocco economico che da quasi mezzo secolo colpisce l’isola. Per la prima volta, un gruppo dirigente rivoluzionario realizza quanto promesso: un programma radicale a livello sociale (soprattutto la riforma agraria, gli espropri, la campagna di alfabetizzazione); per la prima volta un paese resiste alla controffensiva statunitense: nell’aprile 1961 viene respinta l’aggressione a Playa Giron, ad opera di mercenari appoggiati dagli USA che vedono nell’esperimento cubano un pericolo per la loro egemonia a livello continentale.

Nel 1962 l’Algeria conquista l’indipendenza dopo uno scontro durato otto anni contro il colonialismo francese, in un intreccio di guerriglia, di proteste di massa nelle città, di mobilitazione internazionale contro le efferatezze compiute dalla potenza coloniale (uso dei gas sulla popolazione civile e della tortura contro i patrioti). Il mondo occidentale è scosso ed obbligato ad un esame di coscienza (si veda la drammatica prefazione di Sartre a I dannati della terra di Frantz Fanon).

Nel 1960 l’indipendenza del Congo ex belga viene salutata come l’atto che segna l’emancipazione del continente africano, capace ormai di sottrarsi al dominio secolare dei paesi europei. Ne è emblema la grande figura di Patrice Lumumba il cui assassinio, nel 1961, segna la fine della speranza di una vera autonomia dalle grandi potenze politiche ed economiche, la ricaduta del Congo nell’orbita del neocolonialismo, l’impossibilità di divenire il centro di un processo di autentica liberazione continentale.

Nel 1964 esplode la guerra in Vietnam diviso in due stati, comunista a nord e nell’orbita statunitense a sud. La spinta all’unità nazionale è egemonizzata dalle forze comuniste e produce una crescente guerra di popolo a sud contro il regime esistente, corrotto e conservatore. L’intervento militare “americano” è crescente e passa progressivamente dalla presenza di poche migliaia di uomini ad un esercito di centinaia di migliaia di militari, a bombardamenti sul nord che ne colpiscono prima le attrezzature militari, poi quelle industriali, poi indiscriminatamente le città, le dighe… (escalation), alla presenza di basi militari e della flotta sino all’estensione della guerra nei paesi confinanti. La guerra americana suscita progressivamente la protesta del mondo intero e anche di settori democratici e giovanili negli stessi Stati Uniti. Passa l’immagine di Davide e Golia, di un piccolo paese contadino aggredito dalla maggiore potenza del mondo, della distruzione ambientale portata dai bombardamenti (uso dei gas defoglianti, delle armi chimiche…), di una nuova guerra di Spagna in cui si giocano le sorti del mondo, di una guerra partigiana combattuta contro la potenza occupante e un governo “fantoccio”. Non a caso, l’ultimo scritto di Guevara chiederà di moltiplicare le ribellioni di popolo antimperialistiche (tanti Vietnam) in tutto il mondo.

Si sommano a queste realtà la rivolta nelle colonie portoghesi in Africa, l’esplosione dei ghetti neri negli USA e la formazione di un movimento nero che non rivendica solamente la parità di diritti con i bianchi, la nascita, in Palestina di un movimento nazionale che non si affida più agli stati arabi moderati, ma che agisce in prima persona, soprattutto, a partire dal 1965, la rivoluzione culturale cinese che viene maggioritariamente interpretata come il rilancio di un marxismo rivoluzionario e internazionalista, come l’antidoto contro i rischi di burocratizzazione e di imborghesimento propri di ogni movimento rivoluzionario, come la capacità di rimettersi in discussione dal basso e di autorigenerarsi per un partito di classe. Il “mito cinese e maoista”, sino alla autentica riproposizione del culto della personalità avrà per anni un posto importante nella sinistra del mondo intero.

Occorre aggiungere a questo quadro complessivo la più consistente ribellione giovanile mai avvenuta, frutto di un conflitto generazionale mai così intenso. Il cinema e la musica dei “mitici anni ‘60” ne sono uno specchio.

In questo ambito si sviluppa e matura l’internazionalismo del Che, un argentino che ha combattuto per Cuba ed è pronto a farlo per l’intero continente:

Sono cubano e sono anche argentino…e qualora fosse necessario sarei disposto a dare la mia vita per la liberazione di qualsiasi paese latinoamericano, senza chiedere nulla a nessuno.

Se in gioventù il suo comunismo è ortodosso e superficiale (in una lettera si firma Stalin II) e il suo primo giudizio sull’URSS e sui paesi dell’est è entusiastico, la crisi dei missili (1962) segna un cambiamento profondo. Cuba è disposta alla distruzione perché il suo esempio sia raccolto dagli altri paesi latinoamericani:

Cuba è sull’orlo dell’invasione: è minacciata dalle forze più potenti dell’imperialismo mondiale e persino di morte atomica. Dalla sua trincea…lancia all’America il suo appello definitivo alla lotta; ad una lotta che non si deciderà in un’ora o in pochi minuti di battaglia terribile, ma in anni di logoramento… Da qui, dalla sua trincea solitaria, il nostro popolo fa udire la sua voce. Non è il canto del cigno di una rivoluzione sconfitta, è un inno rivoluzionario destinato a perpetuarsi sulle labbra dei combattenti d’America.

Il ritiro dei missili sovietici per evitare uno scontro con gli USA, senza neppur avere consultato il governo cubano è un fatto grave e presuppone nuovi cedimenti:

Si tratta dell’esempio di un popolo che si dimostra disposto alla distruzione atomica perché le sue ceneri servano da fondamento a società nuove e che quando si giunge senza consultarlo ad un accordo mediante il quale vengono ritirati i missili atomici, non tira un sospiro di sollievo, non ringrazia per la tregua, ma si intromette per far sentire la sua voce.46

Il distacco progressivo dal “socialismo reale” è già evidente nel discorso del 1964, a Ginevra, nella sede dell’ex Società delle Nazioni. Il nodo delle contraddizioni mondiali è dato dal contrasto nord/sud, dallo scambio ineguale. Seguendo una posizione comune a tutto il “terzomondismo” (Fanon in primis) il centro del movimento rivoluzionario si è spostato dall’occidente capitalistico (classe operaia e partiti sono visti come totalmente integrati) ai paesi sottomessi al colonialismo o al neocolonialismo.

Ancora Guevara è critico sugli scambi con i paesi dell’est: la qualità dei prodotti è scadente e spesso a Cuba vengono forniti materiali obsoleti e non competitivi, cosa che certamente accade verso tutti i paesi “in via di sviluppo”.

Questo tema è al centro del suo ultimo intervento pubblico, nel febbraio 1965, in occasione del Seminario economico di solidarietà che si svolge ad Algeri. Anche tra i paesi socialisti e quelli sottosviluppati si pratica lo scambio ineguale che danneggia i secondi; sarebbe invece necessario dare a questi tutto l’aiuto tecnico necessario per iniziare la strada verso la crescita economico e lo sviluppo, possibile solamente attraverso una pianificazione economica sovranazionale. Ancor più le armi per la liberazione nazionale ed economica debbono essere concesse senza usare criteri di redditività:

Il cammino della liberazione deve costare ai paesi socialisti. Non ci può essere socialismo se nella coscienza non si attua un mutamento che provochi un nuovo atteggiamento fraterno nei confronti dell’umanità sia di carattere individuale - nella società in cui si costruisce o si è costruito il socialismo - sia di carattere mondiale, in rapporto a tutti i popoli che subiscono l’oppressione dell’imperialismo. Crediamo che…non si debba più parlare dello sviluppo di un commercio di vantaggio reciproco, basato sui prezzi che la legge del valore e i rapporti internazionali fondati sullo scambio ineguale prodotto dalla legge del valore, impongono ai paesi arretrati. Come può essere di “vantaggio reciproco” vendere ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che costano sudore e sacrificio senza limiti ai paesi arretrati e comprare ai prezzi del mercato mondiale i macchinari prodotti nelle grandi fabbriche automatizzate dell’epoca attuale?

Se stabiliamo questo tipo di rapporto tra i due gruppi di nazioni, dobbiamo ammettere che i paesi socialisti sono, in un certo senso, complici dello sfruttamento imperialistico.

Non c’è altra definizione del socialismo valida per noi oltre l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo… e se invece di verificarsi questo fenomeno, l’impegno nell’eliminazione dello sfruttamento ristagna o addirittura arretra, non si può neppure parlare di costruzione del socialismo.47

E’ chiaro come l’intervento sia eterodosso e conflittuale con il socialismo autoritario dell’URSS e degli altri paesi del campo; dopo il ritorno a Cuba il Che scomparirà per tentare di attuare praticamente questo internazionalismo rivoluzionario e di aprire più fronti che l’imperialismo USA non sia in grado di reprimere contemporaneamente:

C’è una triste realtà: il Vietnam, questa nazione che incarna le aspirazioni, le speranze di vittoria di tutto il mondo dimenticato è tragicamente solo…La solidarietà del mondo progressista verso il popolo del Vietnam assomiglia all’amara ironia che l’incitamento della plebe rappresentava per i gladiatori del circo romano…L’imperialismo americano è colpevole di aggressione, i suoi crimini sono immensi e disseminati in tutto il mondo…Ma è anche colpevole chi, nel momento decisivo, ha esitato a fare del Vietnam una parte inviolabile del territorio socialista, correndo così i rischi di una guerra di portata mondiale, ma costringendo anche gli imperialisti a prendere una decisione. E colpevoli sono coloro che alimentano una guerra di insulti e sgambetti, iniziata ormai da molto tempo da parte dei rappresentanti delle due maggiori potenze del campo socialista48.

E’ la fase in cui si crede nell’unione, in funzione antimperialista, dei tre continenti colonizzati: Africa, America latina, Asia. Nel gennaio ’66 si riunisce la prima Tricontinentale, data dall’incontro dei popoli dei tre continenti. Nonostante le apparenze, però, la fase più alta dell’onda sembra essere passata: l’Indonesia ha subito da pochi mesi un tremendo colpo di stato, in Algeria Ben Bella è stato sostituito da Boumedienne, anche qui con un colpo di stato, il leader del movimento marocchino, Ben Barka, è stato rapito e assassinato con la complicità dei servizi segreti francesi.

La morte del Che, un anno dopo quella di padre Camillo Torres, segnerà, per molto tempo, la sconfitta dell’ipotesi guerrigliera nell’America latina. L’involuzione della realtà africana cancellerà le grandi speranze degli anni ’60 sulla possibilità di un socialismo africano, la stessa vittoria nel sud est asiatico aprirà nuove contraddizioni, dalla tragedia della Cambogia, alle difficoltà, da subito, dello stesso Vietnam.


Le scelte economiche


Cuba vive, già nei primi anni dopo la rivoluzione, ma soprattutto nel biennio 1963- 1964 un grande dibattito sulle scelte economiche, sullo sviluppo, sulla pianificazione, conseguentemente sul tipo di socialismo da costruire. Il movimento comunista non viveva un dibattito, una discussione così profondi e significativi dall’URSS degli anni ’20. La pianificazione di un paese sottosviluppato, lontano, anche geograficamente, da ogni esperienza similare e per di più schiacciato dal blocco economico vede due ipotesi diverse. La vittoria della prima segnerà una sconfitta per il Che, sarà forse tra gli elementi che lo spingeranno a lasciare l’isola, contribuirà a spostare la collocazione di Cuba che, dopo una prima fase di marxismo creativo e autonomo, a fine decennio, si collocherà, in ogni settore, nell’orbita sovietica.

I sostenitori del modello sovietico vanno dal ministro del commercio con l’estero, Alberto Mora all’economista francese Charles Bettelheim. Le tesi del Che e dell’economista trotskista belga Ernest Mandel criticano la prima impostazione su questioni di fondo:

La sostanza di fondo del dibattito consisteva nel confronto tra una visione economicistica - la sfera economica come sistema autonomo, retto da proprie leggi, come la legge del valore o le leggi di mercato - e una concezione politica del socialismo, cioè il fatto di prendere decisioni economiche - le priorità produttive, i prezzi…- in base a criteri sociali, etici e politici: le proposte economiche del Che - la pianificazione in luogo del mercato, il sistema di finanziamento del bilancio, gli incentivi collettivi o “morali” - avevano l’obiettivo di ricercare un modello di costruzione del socialismo basato su questi criteri, e quindi diverso da quello sovietico.50

Il testo in cui maggiormente emerge il legame tra economia ed etica è, senza dubbio, Il socialismo e l’uomo a Cuba, scritto nel 1965 in forma di lettera: la trasformazione dell’individuo dopo la rivoluzione è ancora frenata da mille limiti che occorre superare:

La nuova società in formazione deve lottare molto duramente con il passato. Ciò si avverte non solo nella coscienza individuale su cui pesano i residui di un’educazione orientata sistematicamente all’isolamento dell’individuo, ma anche per il carattere stesso di questo periodo di transizione, con il permanere di rapporti di mercato. La merce è la cellula economica della società capitalistica; finché esisterà, i suoi effetti si ripercuoteranno sull’organizzazione della produzione e conseguentemente sulla coscienza51.

Per una vera trasformazione sociale è indispensabile la partecipazione cosciente, individuale e collettiva che non può essere separata dall’educazione tecnica e ideologica:

L’uomo acquisterà così la piena coscienza del proprio essere sociale, il che equivale alla sua completa realizzazione come creatura umana, una volta spezzate le catene dell’alienazione52.

Il superamento dell’alienazione e il recupero della marxiana completezza dell’individuo si legano alla certezza che il capitalismo non si possa combattere utilizzando i suoi strumenti:

Rincorrendo l’illusione di realizzare il socialismo con l’aiuto delle armi spuntate che ci lascia in eredità il capitalismo (la merce come cellula economica, il profitto, l’interesse materiale individuale come leva ecc...) si può imboccare un vicolo cieco. Non si tratta di sapere quanti chili di carne si mangino e quante volte l’anno ognuno posa andarsene a passeggiare sulla spiaggia, e neppure quante belle cose provenienti dall’estero si possano acquistare con gli attuali salari. Si tratta piuttosto di far sì che l’individuo si senta più completo, con molta maggiore ricchezza interiore e senso di responsabilità.53

Non diversa l’impostazione nell’intervista rilasciata, due anni prima, al giornalista francese Jean Daniel e comparsa sull’ “Express”:

Il socialismo economico senza la morale comunista non mi interessa. Lottiamo contro la miseria, ma lottiamo, al tempo stesso, contro l’alienazione… Se il comunismo si disinteressa dei fatti di coscienza, potrà essere un metodo di ripartizione, ma non sarà mai una morale rivoluzionaria.54


Il partito, la burocrazia


Nella prima fase successiva alla rivoluzione Guevara interpreta la burocrazia come un male frutto dell’eredità del vecchio sistema. Scomparirà linearmente con l’estinzione delle categorie mercantili e la costruzione del socialismo. Già nel corso del dibattito sul modello economico (1963 - ’64) comprende, però, che il problema è più profondo, che si sta ampliando ed aggravando. Le riserve sui paesi socialisti gli fanno temere che Cuba non riesca ad imboccare una strada autonoma.

L’autocritica per aver sottovalutato il problema si lega alle proposte per limitarlo e cancellarlo. Nello scritto Contro il burocratismo (1963) elenca come sue cause il guerriglierismo che ha applicato all’amministrazione le logiche della lotta armata, spingendo, per correggere i suoi errori, alla formazione di forti apparati burocratici, la mancanza di interesse dell’individuo nel rendere un servizio allo stato, il crescente conformismo, la insufficienza di una adeguata formazione tecnica.

La somma di inadeguata (o assente) coscienza politica e di mancata conoscenza tecnica, l’inamovibilità dei funzionari (a volte l’ereditarietà delle cariche) causano sono cause della sconfitta della rivoluzione e del suo arretramento.

Scrive il “Granma” (organo del partito) nel 1967, su posizioni chiaramente ispirate dal Che:

La burocrazia costituisce, senza alcun dubbio, uno strato sociale a parte che ha un certo rapporto con i mezzi di produzione… Finché lo stato rimane un’istituzione e finché l’organizzazione amministrativa e politica non è completamente comunista, esiste il pericolo che, in seno all’apparato burocratico amministrativo e direttivo, si formi uno strato particolare di cittadini. L’apparato ha un certo rapporto con i mezzi di produzione, rapporto diverso da quello del resto della popolazione, che rischia di trasformare le posizioni burocratiche in posti di confort, di stagnazione o di privilegio.55

Riportando tutte le motivazioni guevariste sostenute nel corso del dibattito economico, gli articoli del quotidiano proseguono sostenendo che la formazione dell’ “uomo nuovo” sia l’unico antidoto contro la degenerazione che può toccare anche il partito nella sua interezza:

Le esperienze della lotta contro questo male ci dimostrano che la burocrazia tende ad agire come una nuova classe. Tra i burocrati si stabiliscono vincoli, nessi e relazioni simili a quelli di qualunque altra classe sociale…Se il partito non vince questa battaglia contro la burocrazia… finirà per burocratizzarsi esso stesso. E un partito che ristagna è un partito che imputridisce. E che cosa succede in questo caso? Che cosa succede se l’organismo del partito si asfissia in questo torpore burocratico? Uno strato sociale a parte, la cui ambizione è quella di perpetuarsi, si consolida nell’amministrazione e nella direzione dello Stato, così come nella direzione politica… questo strato si trasforma in un corpo privilegiato… E quando questo accade, si è rinunciato all’edificazione del socialismo e del comunismo.56

Al di là di ascendenze trotskiane, da molti rivendicate, per la somiglianza, ancora una volta, con nodi posti negli anni ’20, in URSS, è un’analisi lucida, centrata sulla possibilità di involuzione, sui pericoli professionali del potere, sulla necessità di rinnovamento, anche generazionale, nel partito e nello Stato. Qualche segno di questa irrequietezza e di questa criticità è rimasto nei decenni successivi in posizioni “guevariste”, spesso, purtroppo, emarginate:

L’idea del socialismo, come una scelta di liberazione, giustizia sociale e di sviluppo è stata svilita ed abbattuta, il che pregiudica, infiacchisce e disorienta gli sforzi e le lotte dei popoli del cosiddetto Terzo mondo, siano essi per il socialismo o rivolti ad aspirazioni molto più modeste di sopravvivenza, di trattamento più equo e di speranza di sviluppo…Non vanno dimenticati e sarebbe un errore gravissimo, i seri limiti propri del regime politico socialismo.57

Un regime burocratico annulla le individualità, produce l’unanimismo, non accetta la diversità che arricchisce la società:

È certo, inoltre, che il nuovo potere porta il rischio di una nuova forma di burocratismo, della collocazione superficiale di persone e funzioni, del controllo della critica, del ricorso all’autoritarismo e all’impunità… i valori di dominazione classista, dell’egoismo, di dominio e vantaggio materiale del capitalismo coesistono con i valori socialisti e possono acquistare forme vergognose, ma reali dentro il nuovo regime.58

Scrive José Mariategui, il maggior marxista latinoamericano, in un articolo del 1928:

Sicuramente non vogliamo che socialismo in America latina rappresenti un calco e una copia. Deve consistere in una creazione eroica. Dobbiamo dar vita, grazie alla nostra specifica realtà, nel linguaggio nostro proprio, al socialismo amerindo. È una missione, questa, degna di una nuova generazione.59

Uscire dall’imitazione meccanica del modello sovietico, non solamente in economia, è centrale nell’opera del Che. In una lettera del 1965 ad un amico cubano critica l’accettazione acritica dei manuali sovietici e della loro interpretazione del marxismo. Questi manuali cancellano la creatività, impediscono di pensare: Il partito lo ha già fatto per te.

Dal ’63 in poi è continua la sua ricerca di un socialismo diverso, alternativo, in cui scelte politiche, economiche e morali si leghino. Tra gli scritti posteriori al 1965 e rimasti colpevolmente inediti per tanti anni vi è una critica frontale al Manuale di economia politica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, considerato rigido e dogmatico. L’alternativa è una programmazione democratica, decisa dai lavoratori stessi, dalla masse, quasi una democrazia socialista, mai attuata e sempre sostituita da un socialismo autoritario, che nelle sue stesse opere precedenti era semplicemente accennata.

Questa idea di un socialismo non burocratico lo spinge, in più casi, ad opporsi alle censure e a sostenere, seppure mai in forma del tutto esplicita, la possibilità di espressione pubblica del dissenso. In Il socialismo e l’uomo a Cuba accusa il realismo socialista di derivazione sovietica che impone una unica forma artistica, imponendo la camicia di forza alla ricerca che, di fatto, viene cancellata. Così pure - senza entrare nella disputa sul suo trotskismo - nel 1961 è lui a criticare il divieto di pubblicazione a Cuba della Rivoluzione tradita, e a far scarcerare nel 1965 il dirigente trotskista cubano Roberto Acosta Echevarria a cui dirà, salutandolo: Le idee non si uccidono a bastonate. Nel 1964, in una relazione al Ministero dell’Industria60, rispondendo all’accusa di trotskismo rivoltagli da esponenti sovietici replica:

Io credo solo una cosa, ed è che si deve avere la capacità sufficiente per distruggere tutte le idee contrarie su un determinato argomento, oppure lasciare che le opinioni si esprimano…Non è possibile distruggere le opinioni a bastonate, e questo è proprio ciò che uccide ogni libero sviluppo dell’intelligenza. Ora è vero che dal pensiero di Trotskij si possono ricavare una serie di cose. Io credo che nelle questioni fondamentali su cui si fondava Trotskij commetteva degli errori; credo che il suo comportamento posteriore fu erroneo61.


Il Che è vivo?


La frase, senza il punto interrogativo tagliava in orizzontale l’enorme manifesto con la splendida fotografia del cubano Korda che ritrae il Che con una espressione di fierezza, ira, sdegno, dopo un attentato nel porto dell’Avana. È l’immagine che milioni di giovani di ogni paese del mondo hanno avuto nella propria stanza o retto nelle manifestazioni.

Al di là delle celebrazioni, dei monumenti, dell’immagine divenuta oggetto di consumo, dell’esempio morale, del sacrificio, della scelta da eroe romantico, molti aspetti del suo pensiero mantengono una profonda attualità, pur in una realtà radicalmente cambiata.

La dimensione internazionale dei problemi è oggi ovvia, anche se il termine internazionalismo è sempre più sconosciuto; i pericoli del burocratismo, del distacco tra dirigenti e diretti, della assenza di reale democrazia e partecipazione sono documentati non solo dall’implosione dei paesi a socialismo autoritario, ma anche dalla crisi dei partiti popolari e della sinistra nella più parte del mondo. Il risveglio dell’America latina e le differenti strade intraprese dai singoli paesi, dal Venezuela alla resistenza di Cuba, dalle contraddizioni della presidenza Lula alle sorprese di Uruguay e Paraguay sino alla riproposizione dell’indigenismo hanno qualche radice nella prospettiva continentale guevarista.

È significativo che, nel venticinquesimo della sua morte, Armando Cossutta, per decenni dirigente del PCI e allora di Rifondazione, abbia scritto che se la sinistra occidentale avesse meglio compreso il messaggio e l’insegnamento del Che, la situazione avrebbe seguito un altro corso.

Altrettanto significativo che a lui guardino con interesse tutte le culture critiche, non solamente di derivazione marxista.

Il movimento comunista ha rappresentato nella storia la più grande speranza laica, capace di mobilitare milioni e milioni di uomini e donne e di dare un senso alle loro esistenze. Ha avuto pagine gloriose, ha visto sacrifici, fedi, “investimenti esistenziali” come nessun altro. In suo nome, si sono, al tempo stesso, compiuti delitti, crimini, cancellazioni di libertà individuali e collettive.

Ancora oggi figure sconfitte come Rosa Luxemburg, Gramsci, il Che… ci parlano e ci dicono che la storia sarebbe potuta essere differente e che il loro insegnamento, misurato con l’oggi, può essere strumento per una ricostruzione indispensabile, anche se quanto mai problematica.

Il merito di Marx consiste nell’aver prodotto di colpo nella storia del pensiero sociale un cambiamento qualitativo. Non solo egli interpreta la storia, ma comprende la dinamica e ne prevede il futuro sviluppo, ma… esprime un concetto rivoluzionario: non basta interpretare la natura, bisogna trasformarla. L’uomo cessa di essere schiavo e strumento del mezzo e diventa architetto del proprio destino.62

Citando questo passo, Mario Spinella ricorda le cristallizzazioni, speculazioni e deformazioni che il marxismo ha subito, ma come questo, nel quarto di secolo seguito alla seconda guerra mondiale, abbia vissuto una straordinaria fioritura, sollecitata dai moti della prassi rivoluzionaria e da grandi pensatori:

A buon diritto, quindi, la vita e l’azione di Ernesto Che Guevara appartengono alla storia del marxismo nel nostro secolo. In tempi come quelli odierni, di stasi teorica e pratica del pensiero rivoluzionario - una stasi prevedibilmente temporanea - “rileggere la vita e le azioni del Che e non trascurare anche il loro riflesso scritto, può essere uno dei tanti modi per mantenere vivo e attuale il filone del marxismo e della umana liberazione63.

Per questo il Che non è etichettabile, inquadrabile in schemi o “ismi”. Il suo marxismo critico ci accompagna e ci è indispensabile, ancora a 40 anni dal suo sacrificio:

Anche la parte incompiuta del pensiero del Che…ci soccorre con suggerimenti e spunti positivi. Il grande indagatore è ancora presente per segnalarci problemi e percorsi, metodi per esigere dai compagni che pensino, studino e uniscano la pratica e la teoria. Quando si assimila veramente il suo pensiero è impossibile farne un dogma, trasformarlo in un altro baluardo dottrinario e in un altro ricettario di frasi64.


ERNESTO CHE GUEVARA: IL PENSIERO E L'OPERA


Sintesi delle conferenze tenute da Gianni Alasia

- all'Università di Torino;


In calce alcune considerazioni di José Salinas.


40 ANNI DALLA MORTE DI UN RIVOLUZIONARIO


ERNESTO CHE GUEVARA: IL PENSIERO E L'OPERA.


Gianni Alasia

Non farò certo una celebrazione che non si addice alla figura del CHE alla sua ricca personalità, densa di problemi ed implicazioni. Il CHE era l'antiretorica.

Dirò invece alcune cose che spero consentano di capire come la rivoluzione non è una marcia trionfale, ininterrotta. Ha anzi bruschi salti, balzi in avanti, battute d'arresto, passi indietro e riprese. Castro un giorno disse che era più facile conquistare il potere politico con la rivoluzione armata che poi realizzare la società socialista, nelle sue strutture economiche, nei suoi rapporti sociali, nella cultura nuova; fare l'uomo nuovo quando l'uomo è irretito in interessi, culture ecc. tenaci e resistenti.

Per chiarezza ed onestà espositiva io devo premettere che il mio rapporto con Cuba e gli incontri col CHE risalgono alla primavera del 1962, cioè a pochi anni dal trionfo della rivoluzione (Castro era entrato all' Avana nel gennaio 1959) ed a pochi mesi dallo sbarco reazionario (aprile 1961) di Playa Giron.

In quel periodo sono ambientate e vanno intese tutte le mie considerazioni.

Sono anni decisivi per l'affermarsi del carattere socialista della rivoluzione; non solo per le dichiarazioni politiche ed ideologiche (c'era già stata la 1ª Dichiarazione dell'Avana (settembre 1960) e la seconda del febbraio 1962. Ma soprattutto c'erano le prime concrete trasformazioni nella struttura socio-economica, come la riforma agraria, importantissima nella economia di quel paese. Ricordo che abbiamo avuto all'Avana un incontro con Rodriguez presidente dell'IRA (Istituto Riforma Agraria); Rodriguez era un intellettuale molto impegnato.

Ecco qualche dato e considerazioni fornite da Rodriguez: distribuzione della terra coltivata: 2.700.000 ettari alle grangias del popolo cioè alle aziende di stato; 900.000 ettari alle cooperative; 6.400.000 ettari ai piccoli coltivatori;

Nella tradizione cubana il campesino non chiede la terra, chiede sicurezza nel lavoro, continuità e un salario garantito. C'era lo spettro dei quattro mesi di lavoro della zafra (raccolta e lavorazione della canna da zucchero); e il campesino vuol vivere 12 mesi; questa la fondamentale aspirazione.

Nel 1962 quando lo incontrammo il CHE era stato nominato Ministro delle industrie. Ci furono per l'industria forti stanziamenti nel bilancio statale: su 703 milioni di pesos per lo sviluppo economico, 208 erano per lo sviluppo industriale contro i 112 per l'agricoltura. Ci disse il CHE che era diventato il Ministro delle industrie che prevedeva lo sviluppo nel settore siderurgico, metallurgico, chimico, estrazione di nichel, cobalto, rame e impegno per le risorse energetiche.

Ci disse il CHE che il 90% dell'industria era nazionalizzata ma la sua produzione dipendeva sostanzialmente dalle importazioni e c'era quindi il problema del bilancia commerciale, di disporre di una forte voce per le esportazioni. Di qui l'esigenza contraddittoria di non limitare, ma migliorare la "zafra", la coltivazione e razionalizzazione della canna da zucchero e derivati industriali e, contemporaneamente di rompere la monocultura. Si pensi all'assurdo che Cuba importava dall'America verdura e legumi, esportava bestiame e pelli ed importava scarpe. Voglio incominciare con una annotazione che ha valore politico e morale - umano, di stile nella lotta, una diversa concezione di lotta.

Quando 40 anni fa il CHE veniva assassinato a Quebrada del Juro con un ordine di Washington, era prigioniero e ferito. Si ordinò di sparargli al basso ventre forse per dimostrare che era morto in combattimento. Ma in quelle tragiche ore che intercorrono tra la cattura e l'assassinio forse non si saprà mai bene come andarono le cose. Pochi giorni prima il CHE annotava nel suo diario: "oggi avevo sotto tiro un soldatino mercenario della reazione; lo presi di mira e poi ho avuto un attimo di riflessione dicendomi che la morte di quel disgraziato non risolveva la guerra; ho abbassato il fucile".

Tutto ciò va ricordato per un giudizio politico e morale. Guevara aveva detto un giorno: "nei tempi duri bisogna essere duri; ma guai a perdere la propria tenerezza".

A Cuba visitai "El grande cobre" miniera di rame a 30 Km da Santiago; prima era di capitale spagnolo e portoricano ecc.

Furono prosciugati pozzi allagati; si utilizzarono le notevoli giacenze di rame in superficie, poiché la miniera era stata sfruttata con criteri da rapina. Al grande cobre è fiorito un villaggio: la prima scuola, l'alfabetizzatora (cioè la maestrina). Ricordo che le donne nere con orgoglio mi mostrarono il quaderno del bimbo e mi fecero vedere un coniglio come per dire queste son le novità di Cuba rivoluzionaria.

La ripresa della miniera non fu facile; vi furono ciarlatani, avventurieri, uno che era un chiromante e se la cavava dicendo "mañana por la mañana". Poi finalmente venne un geometra italiano. Il CHE ci parlò del problema dei salari a Cuba che erano disse irrazionali, alti e bassi. C'era da parte del Governo un progetto con scala di mansioni: una base comune con variazione in relazioni alla quantità e qualità e condizioni di disagio del lavoro.

Chiesi al mio compagno nero che ci accompagnava quali erano le condizioni in fabbrica prima della rivoluzione. Mi rispose con un ampio sorriso come per dirmi, sei ingenuo: "ma prima della rivoluzione la gente come me non era in fabbrica, quello era un privilegio dei bianchi; prima della rivoluzione c'era il musalismo, il sindacato corrotto". Un significativo ricordo: tutte le mattine all'albergo dove eravamo veniva Michelino: aveva una cassetta con il lucido da scarpe, da lui confezionato. Mi ricordava il bimbo di "bandiere sulle torri" di Macarenco. Veniva per lucidarci le scarpe. Naturalmente io mi vergognavo profondamente di mettere la mia zampa davanti a Michelino; ma lui lo voleva. Inventavo sempre qualche accorgimento per dargli senza offenderlo qualche pesos. Michelino aveva una camicia sbrindellata, a pezzi, che mi ricordava le bandiere di San Martino e Solferino. Prima di partire regalai a Michelino tre mie camice; ci stava tre volte dentro ma era felice. Chiesi a Michelino cosa facesse suo padre mi rispose con un termine che sembrava al nostro siciliano, mi disse "si ingegna". Vi lascio immaginare c'era dentro tutto il possibile e il contrario del possibile.

Visitai la Ciudad escolar "Camillo Cienfuego" ai piedi della Sierra Maestra: 20.000 bambini della Sierra che lavoravano e studiavano cori l'esercito Rebelde. Nella Sierra M. la mortalità infantile (ci dice l'ufficio di igiene delle Nazioni Unite) era del 90%.

Ora per la prima volta quei ragazzi calzavano scarpe; avevano lo spazzolino per i denti. Era progetto del Governo di tornare a destinarli nella Sierra per metterla in rinascita. Ma quei bambini diventano "altri" bambini e allora occorreva avviare nella Sierra già opere capaci di accogliere il nuovo uomo e non fare dei frustrati.

A l'Avana c'erano centinaia di ville sontuose abbandonate dai grandi proprietari; i "gusanos" fuggiti a Miami; dopo la rivoluzione occupate dai neri, meticci, mulatti, da comunità povere che facevano formazione professionale "el minimo tecnico"; che costituivano un serio problema di prossimo inserimento produttivo.

C'erano allora all'Avana grandi scritte. "Con la seconda vacuña venceremo". Tutti i bambini furono vaccinati; la medicina ha avuto un grande sviluppo; furono persino vendute al Vaticano attrezzature avanzate. E quando Papa Giovanni andò a Cuba, davanti al monumento del CHE, "guerrigliero eroico" si soffermò e disse parole di elogio per le sue "buone intenzioni".

In quei giorni il CHE ci fece osservare che in quel tempo in un paese dove prima portare armi era il privilegio di una casta dispotica ed assassina, ora il 50% della popolazione era armata; solo un Governo con profonde radici popolari e forte consenso può far questo.

Qualche considerazione sul piano della organizzazione politica.

Allora c'erano le ORI (Organizzazione Rivoluzionaria Integrata): Movimento del 26 luglio; Partito Socialista Cubano (comunista); il Direttorio.

Fu un processo come tutti i processi veri con un confronto interno anche difficile, ma con metodi ben lontani dallo stalinismo; fu una dialettica e vi furono anche i tradimenti come in tutti i processi veri.

Vi cito due casi che in qualche modo ho potuto seguire da vicino.

L'allontanamento di Anibale Escalante, per posizioni settarie, un certo dirigismo che relegava in secondo piano la funzione delle masse (assegnava per es. le abitazioni di nuova costruzione ai compagni di sicura fede). Escalante fu tolto da quel posto di responsabilità. Ciò diede luogo ad un dibattito significativo ma stili e metodi fuori dal cliché staliniano. "Non si può metter alla nostra hermosa rivoluzione una camicia di forza" dirà Castro.

E ancora "i responsabili siamo tutti a maggior o minor misura". Noi non possiamo vedere Anibale Escalante come abbiamo visto altri uomini che furono della rivoluzione e poi la tradirono. Escalante fu comunista durante molti anni. Fu un sincero ed onesto comunista. È forse diventato un anticomunista? Un capitalista? No! Fu ricordato: "quando noi eravamo bambini Escalante combatteva in Spagna".

E ci furono anche tradimenti.

Ho conosciuto personalmente Odon Alvarez de le Campa, un caso triste e penoso. Era segretario organizzativo della CNT. Era di uno schematismo organizzativo impressionante. Forse perché la CNT aveva dovuto fare i conti con il Musalismo, il sindacato corrotto del periodo battistiano che godeva però di consensi.

Odon Alvarez nel periodo cospirativo confezionava bombe per la rivoluzione. Una di queste gli scoppiò in mano, troncando tutte e due le mani. Anche per le più piccole operazioni corporali era accompagnato da un compagno. Aveva bisogno di cure costanti (morfina?). Entrò in rapporto con la CIA (con promesse ed aiuto entrò a loro servizio). Scoperto e cacciato fuori dalla CNT Castro volle graziarlo condannandolo all'esilio.

Qualche considerazione sui rapporti coi paesi del "socialismo reale".

Credo che il pensiero del CHE se non si vuole ridurre tutto per un giudizio schematico e di comodo per l'una o 1'altra tesi bisogna riconoscere che ha subito una notevole evoluzione dalle illusioni e speranze iniziali sul socialismo sovietico. Aldo Garzia scriverà: "il CHE che all'inizio è un marxista ortodosso che, guarda con favore alla esperienza del socialismo reale, dalle illusioni e speranze iniziali sul socialismo sovietico sino a quando dirà per pubblicazioni sovietiche che giravano diffusamente a Cuba "mattoni sovietici" che presentano l'inconveniente di non permettere di pensare" "il partito lo ha già fatto per te". E chi non ha avuto queste illusioni? (Persino DeGasperi ebbe parole di riconoscimento per Stalin come combattente contro il nazismo, quando vedemmo le bandiere dell'armata fossa sul Reichstag hitleriano), sino a quanto dirà per pubblicazioni sovietiche che circolavano largamente allora a Cuba con la presenza di centinaia di tecnici russi, cinesi ecc… "mattoni sovietici che presentano l'inconveniente di non permettere di pensare il partito lo ha già fatto per te".

Erano del resto aperti tanti problemi; Cuba dipendeva per il petrolio dall'Urss s'è aperto un processo importante con nuovo corso di demolizione di Stalin; ricordo cosa disse Krusciov che aveva battute di genuinità popolare: "non so se Castro è comunista; certo che io sono Castrista".

C'è un bellissimo scritto ( addirittura del 1928) di Josè Mariategui considerato il fondatore del marxismo latino – americano.

"Certamente non vogliamo che il socialismo in America sia un calco o copia. Deve essere una creazione eroica. Dobbiamo dar vita; con la nostra realtà, con il nostro linguaggio, al socialismo indo-americano. È una missione questa degna di una nuova generazione".

Sicuramente il CHE ebbe molte ragioni quando criticò duramente i paesi del socialismo reale, quando le ragioni statuali si sovrapponevano ai valori socialisti all'interno (con la burocrazia) e al socialismo internazionalista nei rapporti anche con Cuba.

Forse invece sbagliava quando sulla questione "missili" sovietici istallati a Cuba i sovietici smantellarono le basi senza dire niente ai cubani e questo era grave. Ma c'è da chiedersi cosa tragicamente sarebbe successo diversamente.

Credo da tutto quanto ho detto che non si possa rappresentare Che Guevara solo come "guerrigliero eroico".

Che non era Pancho Villa, con tutto il rispetto per Pancho.

I paragoni sono sempre un po’ azzardati. Semmai il CHE ci ricorda più da vicino Emiliano Zapata, simbolo della riscossa della razza india, delle forze sulle quale far leva.

Il Che non era solo guerrigliero. Era l'uomo che in Svizzera tenne conferenze sull'urbanistica nelle grandi metropoli, parlava di economia, ecologia, di pianeta globale (a Cuba si son fatte importanti realizzazioni fotovoltaiche e termiche solari e nostri compagni del Trentino sono stati per questi problemi a Cuba).

Il CHE era sempre leggermente sorridente ed un po' ironico. Ricordo che in un incontro a Santa Clara con ragazze uruguaiane che chiesero al CHE di firmare il libretto "guerra di guerriglia" il CHE rifIutò: "non faccio queste cose del mondo consumista scrivo perché sono un combattente non per diritti di autore". Fra me e me dissi, subito bella risposta. Ma poi dissi al CHE se qualcuno ti chiede la firma è anche per un rapporto affettuoso. " Mi rispose con un sorriso sempre un po' ironico "hai ragione anche tu".

Voglio dire infine che non condivido il giudizio di Bertinotti quando adombra una diversità fra il CHE e Salvatore Allende. Intendiamoci: diversità ci sono sempre in diverse condizioni oggettive e propensioni soggettive. Ma non bisogna dimenticare che Allende morirà imbracciando il mitra che Castro gli aveva donato (con profondo signifIcato politico). Il suo assassinio aprirà la strada ad un massacro di massa.

Cuba vive con tutti i problemi che ha un forte richiamo per tutta 1'America Latina.

Spero di aver svolto considerazioni razionali. Non voglio terminare con una frase ad effetto. Ma nelle scorse settimane mi ha profondamente colpito una frase che dall'aeroporto Josè Marty viene sino all'Avana: "questa notte in America Latina milioni di bambini (i ninos de rua) dormono per la strada .... Nessuno è cubano. Vi pare poco? ". E' l'attenzione da una lunga cultura, l'attenzione ai bambini, alla vita che viene. Diceva Josè Martì apostolo dell'indipendenza cubana " los niños son la esperanza del mundo".

Ottobre - Novembre 2001

Documento consegnato agli immigrati peruviani



Per gli immigrati peruviani


Ci interesserebbe molto un vostro giudizio su quel che il CHE ha trasmesso e rappresenta oggi nell’America Latina,nelle coscienze della gente in termini attuali (e non solo di ricordo), oggi in una situazione certamente diversa,ma con una America Latina che in modi differenti torna a muoversi e lotta, cosa ha lasciato il CHE come coerenza fra pensiero ed azione, come ricerca delle forze storiche per la rivoluzione, come visione internazionalista della lotta socialista, come rifiuto della burocrazia.




Trascriviamo il breve intervento di Jose’ Salinas Alva del "Circulo Internazionalista Josè Carlos Mariategui" mantenendolo nella sua forma originaria, cioè non corretta.


JOSE’ SALINAS ALVA DEL "CIRCULO INTERNAZIONALISTA JOSÈ CARLOS MARIATEGUI"


LAS COSA PIU IMPORTANTE CHÈ IL CHE HA LASCIATO PER OPPRESSI DI LATINOAMERICA E IL MONDO INTERO È LA DISPONIBILTTA PER LA LOTTA CONTRO L'INGIUSTIZIA E CONTRO L'IMPERIALISTI ED IL SUO INTERNAZIONALISMO RIVOLUZIONARIO. ESSEMPIO INDISCUTIBILE CHE LOTTANDO UNO PUO MORIRE ANCHE VINCERE. PERO UN RIVOLUZIONARIO NON PUO ASPETARE CHE SI LE REGALE LA VITTORIA. "SENZA LOTTA NON CI SONO VITTORIA".


NOI SIAMO CONSAPEVOLI L'IMPORTANZA CHE IL CHÈ HA DATO PER LA PRESSA DEL POTERE ED ANCHE PER LA DIFESA DELLO STESSO POTERE. È STATO SIMBOLO DI MOVIMENTI GUERRIGLIERI ANCHE ATTUALMENTE LO È PER LA DIFESA DEL POTERE COME IN CUBA. .


EL PENSAMIENTO DEL CHÈ, IL SUO INTERNAZIONALSIMO È APPLICABILE ALL'ATTUALE MOMENTO IN LATINOAMERICA. I GOBERNANTI DI VENEZUELA, ECUADOR, BOLIVIA,CUBA NICARAGUA HANNO AL CHE COME RIFERENTEO DÌ LOTTA ANTIIMPERIALISTA, DI LOTTA CONTRO LA GLOBALLZAZLONE CONSTRUENDO IL SOCIALISMO DEL SIGLO 21. STRUTURANDO UNA NUOVA AMERICA.


IN PERU IL IMPERIALISMO ANCORA HA PAURA DÉL CHÈ. NON SI PUO PARLARE PUBBLICAMNETE, PERCHE SE NON SUBITAMENTE UNO È CONSIDERATO TERRORISTA. SE SI PARLA SI FA IN STRUTTURE CHIUSE. PERO AL CHE NOI LA ABBIAMO NEL CUORE.


OGNI VOLTA CHE IL POPOLO LATINOAMERICANO LOTTA PER LA SUA LIBERAZIONE, LOTTA PER COSTRUIRE UNA SOCIETÀ SENZA OPPRESSI IL CHÈ SORRIDE E LOTTA INSIEMME A NOI.


LA TERRA HA BISOGNO DÌ UNO, DIECI, CENTO, MILA CHE GUEVARA


JOSÈ SAUNAS ALVA

"CIRCULO INTERNAZIONALISTA JOSE CARLOS MARIATEGUI"


26.NOVEMBRE 2007 TURIN./TALIA


CONSTERNADOS, RABIOSOS


Vamonos, derrotando afrentas.

(Ernesto “Che” Guevara)


Asi estamos

consternados

rabiosos

aunque esta muerte sea

uno de los absurdos previsibles


da vergüenza mirar

los cuadros

los sillones

las alfombras

sacar una botella del refrigerador

teclear las tres letras mundiales de tu nombre

en la rígida máquina

que nunca

nunca estuvo

con la cinta tan pálida

vergüenza tener frío

y arrimarse a la estufa como siempre

tener hambre y comer

esa cosa tan simple

abrir el tocadiscos y escuchar en silencio

sobre todo si es un cuarteto de Mozart


da vergüenza el confort

y el asma da vergüenza

cuando tú comandante estás cayendo

ametrallado

fabuloso

nítido


eres nuestra conciencia acribillada


dicen que te quemaron

con qué fuego

van a quemar las buenas

buenas nuevas

la irascible ternura

que trajiste y llevaste

con tu tos

con tu barro


dicen que incineraron

toda tu vocación

menos un dedo


basta para mostrarnos el camino

para acusar al monstruo y sus tizones

para apretar de nuevo los gatillos


así estamos

consternados

rabiosos

claro que con el tiempo la plomiza

consternación

se nos irá pasando

la rabia quedará

se hará más limpia


estás muerto

estás vivo

estás cayendo

estás nube

estás lluvia

estás estrella


donde estés

si es que estás

si estás llegando


aprovecha por fin

a respirar tranquilo

a llenarte de cielo los pulmones


donde estés

si es que estás

si estás llegando

será una pena que no exista Dios


pero habrá otros

claro que habrá otros

dignos de recibirte

comandante.


Mario Benedetti

Montevideo, octubre de 1967.




COSTERNATI, FURENTI


Andiamo a sconfiggere gli oltraggi.

(Ernesto Che Guevara)


Eccoci qui

costernati

furenti

pur se questa morte

è uno degli assurdi prevedibili


ci vergogniamo a guardare

i quadri

le poltrone

i tappeti

prendere una bottiglia dal frigo

toccare i tasti con le tre lettere mondiali del tuo nome

con la rigida macchina da scrivere

che mai

è stata

con un nastro tanto pallido


vergogna aver freddo

ed accostarsi alla stufa come sempre

aver fame e mangiare

questa cosa così semplice

aprire il giradischi ed ascoltare in silenzio

soprattutto se si tratta di un quartetto di

Mozart


ci vergogniamo per il confort

e l’asma ci fa vergognare

mentre tu comandante stai morendo

crivellato

favoloso

nitido


sei la nostra coscienza crivellata


si dice che ti hanno bruciato

con che fuoco

si possono bruciare le buone

buone notizie

l’irascibile tenerezza

che ci hai dato e tolto

con la tua tosse

con il tuo fango


si dice che

hanno incenerito

tutta la tua vocazione

tranne un dito


è sufficiente per mostrarci il cammino

per accusare il mostro ed i suoi tizzoni

per premere di nuovo i grilletti


eccoci qui

costernati furenti

certo che con il tempo la plumbea

costernazione ci passerà

resterà la furia

si farà più netta


sei morto

sei vivo

stai cadendo

sei nube

sei pioggia

sei stella


lì dove sei

se poi ci sei

se ci stai arrivando

approfitta finalmente per respirare tranquillo

per riempire di cielo i tuoi polmoni

lì dove sei

se poi ci sei

se ci stai arrivando

sarà un peccato che non esista Dio


ma ci saranno altri

certo che ci saranno altri

degni di riceverti

comandante.


MARIO BENEDETTI

Montevideo, ottobre 1967.




LETTERE d’ AMORE


Rosa Luxemburg


Sul dolore degli animali


Breslavia, dicembre 1917


Sonicka, passerotto mio,

È il mio terzo Natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia.

Sono calma e serena come sempre. Ieri sono rimasta a lungo sveglia - adesso non riesco ad addormentarmi prima dell'una, però devo essere a letto già alle dieci -, così, al buio, i miei pensieri vagano come in sogno.

Ieri dunque pensavo: quanto è strano che, senza alcun motivo particolare, io viva sempre in un'ebbrezza gioiosa. Me ne sto qui, ad esempio, in questa cella oscura, sopra un materasso duro come la pietra, intorno a me nell'edificio regna come di regola un silenzio di tomba, sembra di essere rinchiusi in un sepolcro: attraverso la finestra si disegna sul soffitto il riflesso della lanterna accesa l'intera notte davanti al carcere. Di tanto in tanto si sente, cupo, lo sferragliare di un treno che passa in lontananza; oppure, più vicina, proprio sotto la finestra, la guardia che si schiarisce la voce e per sgranchirsi le gambe fa lentamente qualche passo con i suoi stivaloni. La sabbia stride in modo così disperato, sotto quei passi, che nella notte scura e umida si sente risuonare tutta la desolazione e lo sconforto dell'esistenza.

Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell'oscurità, della noia, della prigionia invernale – e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito.

E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità.

E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare.

E anche nello stridere della sabbia umida sotto i passi lenti e pesanti della guardia risuona un canto di vita piccolo e bello, se solo ci si presta orecchio.

In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso, perché anche voi possiate sentire questa ebbrezza e camminare su un prato dai mille colori.

Non intendo in alcun modo saziarvi d'ascetismo, di gioie immaginarie. Vi concedo, anzi, ogni reale piacere dei sensi.

Vorrei soltanto donarvi, in aggiunta, la mia inesauribile letizia interiore, così da poter essere serena riguardo a voi, pensando che attraversate l'esistenza avvolte in un mantello trapunto di stelle, in grado di proteggervi da quanto è meschina, dozzinale e angosciante.

Ahimé, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell'esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all'esercito.

Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra...

I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com'erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto <<vae victis>>...

Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.

Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po' di compassione per gli animali.

<<Neanche per noi uomini c'è compassione>> rispose quello con un sorriso maligno, e batté ancora più forte... Gli animali infine si mossero e superarono l'ostacolo, ma uno di loro sanguinava...

Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un'espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l'espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta... gli stavo davanti e l'animale mi guardava, mi scesero le lacrime - erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza.

Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui... questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e... le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta.

Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt'uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l'edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia.

E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi... Scrivetemi presto.

Vi abbraccio, Sonica

La vostra R.

Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti - nonostante tutto.

Buon Natale!

Ernesto Che Guevara (1928- 1967).

Ai genitori


Cari vecchi

un’altra volta ancora sento i miei talloni sotto il costato di Ronzinante e riprendo il cammino.

Nulla in me è sostanzialmente mutato, solo che mi sento assai più consapevole e il mio marxismo si è approfondito e raffinato. Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che combattono per la loro libertà e io sono conseguente alle mie convinzioni.

Molti mi considerano un avventuriero e infatti lo sono, ma di un tipo diverso, cioè di quelli che rischiano la pelle per dimostrare che vanno avanti.

Questa lettera, forse, sarà l’ultima. Alla mia fine non tengo in modo speciale, ma la morte è logicamente possibile: Se così dovesse essere, vi bacio per l’ultima volta.

Vi ho molto amato, ma non ho saputo esprimere il mio affetto; sono estremamente rigido nelle mie azioni e credo che a volte non mi abbiate compreso. Non era facile capirmi, del resto, credetemi almeno oggi.

Ora, questa volontà che ho temprato con amore d’artista sosterrà le mie gambe fiaccate e i miei polmoni ormai pieni di fatica.

Ricordatevi, di tanto in tanto, di questo piccolo condottiero del ventesimo secolo.

A voi un grande abbraccio da parte del figlio prodigo e ribelle.

Ernesto


Ai figli


Cari Hildita, Aleidita, Camino, Celia ed Ernesto,

se un giorno leggerete questa lettera, sarà perché non sono più tra voi. Quasi non vi ricorderete di me e i più piccoli non ricorderanno nulla.

Vostro padre è stato un uomo che ha agito come pensava e di certo è stato coerente con le proprie idee.

Crescerete come buoni rivoluzionari: Studiate molto per potere dominare la tecnica che permette di poter dominare la natura. Ricordatevi che l’importante è la rivoluzione e che ognuno di noi, da solo, non vale nulla.

Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità più bella di un rivoluzionario.

Per sempre, bambini miei, spero di vedervi ancora.

Un bacione e un abbraccio da

papà


Le due lettere sono scritte al momento della scomparsa del Che da Cuba. Portano la data convenzionale del 1 aprile 1965.












Alla figlia Hildita


Hildita cara

Ti scrivo oggi, anche se la lettera ti giungerà molto più tardi; ma voglio che tu sappia che mi ricordo di te e che spero tu stia trascorrendo un compleanno molto felice: ormai sei quasi una donna e non ti si può scrivere come a una bambina, raccontando sciocchezze e piccole bugie.

Devi sapere che sono lontano e che starò molto tempo separato da te, facendo ciò che posso per combattere i nostri nemici. Non è che sia molto, ma è pur sempre qualcosa, e credo che tu potrai sempre essere orgogliosa di tuo padre, come io lo sono di te.

Ricordati che ci vorranno ancora molti anni di lotta e quando sarai donna, dovrai fare la tua parte. Nel frattempo, devi prepararti, essere molto rivoluzionaria, che alla tua età vuol dire studiare molto, il più possibile ed essere sempre pronta ad appoggiare le cause giuste. Inoltre, obbedisci a tua madre e non credere di poter fare tutto prima del tempo: Arriverà il momento anche per questo.

Devi lottare ed essere tra le migliori a scuola. Migliore in tutti i sensi e tu sai cosa voglio dire: nello studio e nell’atteggiamento rivoluzionario, vale a dire buona condotta, serietà, amore per la rivoluzione, cameratismo ecc. Io non ero così quando avevo la tua età, ma vivevo in una società diversa nella quale l’uomo era nemico dell’uomo. Oggi tu hai il privilegio di vivere in un’altra epoca e devi esserne degna.

Non ti dimenticare di dare uno sguardo a casa per sorvegliare gli altri bambini ed esortarli a studiare e a comportarsi bene, soprattutto Aleidita che ti ascolta molto come sorella maggiore.

Bene, vecchia mia, ancora una volta che tu abbia un felice compleanno. Dai un abbraccio a tua madre e a Gina e ricedine uno grande e fortissimo che valga per tutto il tempo in cui non ci vedremo, dal tuo

papà







Dal quotidiano messicano “La Jornada”, sabato 11 ottobre 2003

Lettera a Che Guevara


Il brasiliano Frei Betto, frate dominicano, scrittore, nel passato è stato incarcerato e torturato per le sue posizioni a favore dei più poveri



Frei Betto

Caro Che,

sono passati molti anni da quando la CIA ti assassinò nelle selve della Bolivia, il 9 ottobre 1967. Tu avevi, allora, 39 anni. Pensavano, i tuoi boia, che seppellendo pallottole nel tuo corpo – dopo che ti avevano catturato vivo – avrebbero condannato la tua memoria all’oblio. Ignoravano che, al contrario di quello che succede con gli egoisti, gli altruisti non muoiono mai. I sogni libertari non possono essere confinati in gabbie come uccelli addomesticati. La stella del tuo basco brilla più forte, la forza dei tuoi occhi guida generazioni per i sentieri della giustizia, il tuo aspetto sereno e fermo ispira fiducia in coloro che combattono per la libertà. Il tuo spirito oltrepassa le frontiere dell’Argentina, di Cuba e della Bolivia e, appello ardente, ancora oggi infiamma il cuore di molti.

In questi 36 anni sono successi cambiamenti radicali. Il Muro di Berlino è caduto e ha seppellito il socialismo europeo. Molti di noi comprendono solo ora la tua audacia quando segnalasti – ad Algeri nel 1962 – le crepe nelle mura del Cremlino, che ci sembravano tanto solide. La storia è un fiume veloce che fluisce senza evitare ostacoli. Il socialismo europeo ha cercato di congelare le acque del fiume con il burocratismo, l’autoritarismo, l’incapacità di estendere al quotidiano l’avanzamento tecnologico auspicato dalla corsa allo spazio e, soprattutto, si è rivestito di una razionalità economicistica che non basava le sue radici sull’educazione soggettiva dei soggetti storici: i lavoratori.


Chissà se la storia del socialismo non sarebbe oggi un’altra se avesse prestato ascolto alle tue parole: “A volte lo Stato si sbaglia. Quando succede uno di questi equivoci, si percepisce una diminuzione nell’entusiasmo collettivo dovuto a una riduzione qualitativa di ognuno degli elementi che lo formano e il lavoro si paralizza fino il rimanere ridotto a grandezze insignificanti: è il momento di rettificare”.


Che, molte delle tue perplessità si sono confermate nel corso di questi anni e hanno contribuito al fallimento dei nostri movimenti di liberazione. Non ti abbiamo ascoltato abbastanza. Dall’Africa, nel 1965, scrivesti a Carlos Quijano – del settimanale Marcha, di Montevideo: “Lasci che dica, con il rischio di sembrare ridicolo che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore. È impossibile pensare a un rivoluzionario autentico senza questa qualità”.


Alcuni di noi, Che, hanno abbandonato l’amore per i poveri che, oggi, si moltiplicano nella grande patria latinoamericana e nel mondo. Abbiamo smesso di farci guidare dai grandi sentimenti d’amore per essere assorbiti da sterili dispute di parte e, a volte, abbiamo fatto di amici nemici, e dei veri nemici, alleati. Minati dalla vanità e dalla disputa di spazi politici, non abbiamo più il cuore acceso dalle idee di giustizia. Siamo diventati sordi davanti alle grida del popolo e abbiamo perso l’umiltà del lavoro di base e, ora, abbozziamo vaghe utopie per mettere insieme voti.


Quando l’amore si raffredda, l’entusiasmo diminuisce, la sua passione e la dedizione declinano. La causa, come la passione, sparisce, come il romanticismo tra una coppia che non si ama più. Ciò che era “nostro” suona come “mio” e le seduzioni del capitalismo minano i principi, tramutano i valori e, se ancora proseguiamo nella lotta è perché l’estetica del potere esercita maggiore fascino che l’etica del servizio.


Il tuo cuore, Che, batteva al ritmo di tutti i popoli oppressi e depredati. Hai peregrinato dall’Argentina al Guatemala, dal Guatemala al Messico, dal Messico a Cuba, da Cuba al Congo, dal Congo alla Bolivia. Sei partito sempre per libera scelta, incandescente per l’amore che, nella tua vita, si traduceva in liberazione. Per questo potevi affermare con autorità che “è necessario avere una gran dose di umanità, di senso di giustizia e di verità per non cadere in estremismi dogmatici, in freddi scolasticismi, nell’isolamento dalle masse. È necessario lottare tutti i giorni affinché questo amore per l’umanità viva si trasformi in fatti concreti, in gesti che servano da esempio, da mobilitazione”.

Quante volte, Che. la nostra dose di umanità si è inaridita rinsecchita dai dogmatismi che ci hanno gonfiato di certezze e ci hanno lasciato vuoti di sensibilità sui drammi dei condannati della Terra! Quante volte il nostro senso della giustizia si è perduto in freddi scolasticismi che proferivano sentenze implacabili e proclamavano giudizi infamanti! Quante volte il nostro senso della verità si è cristallizzato in un esercizio di autorità, senza che corrispondesse agli aneliti di coloro che sognano un pezzetto di pane, di terra o di allegria!

Tu ci hai insegnato un giorno che l’essere umano è “l’attore di quello strano e appassionante dramma che è la costruzione del socialismo, nella sua esistenza di essere unico e membro della comunità”. E che questo non è “un prodotto già finito. I difetti del passato si trasportano nel presente nella coscienza individuale e bisogna intraprendere un continuo lavoro per sradicarli”. Forse ci è mancato il sottolineare con più enfasi i valori morali, gli stimoli soggettivi, le ansietà spirituali. Con il tuo acuto senso critico ti sei premurato di farci notare che “il socialismo è giovane e ha errori. I rivoluzionari mancano, molte volte, di conoscenze e dell’audacia intellettuale necessari per affrontare il compito di sviluppo dell’uomo nuovo con metodi differenti da quelli convenzionali, perché i metodi convenzionali hanno il difetto di essere sottomessi all’influenza di chi li ha creati”.


Nonostante tante sconfitte ed errori, abbiamo avuto conquiste importanti nel corso di questi 30 anni. Movimenti popolari sono irrotti in tutto il continente. Oggi, in molti paesi, sono meglio organizzati le donne, i contadini, i lavoratori, gli indios e i neri. Tra i cristiani, una parte sostanziale ha scelto di stare dalla parte dei poveri e ha generato la teologia della liberazione. Abbiamo tratto importanti lezioni dalle guerriglie urbane degli anni ‘60, dalla breve gestione popolare di Salvador Allende, dal Governo democratico di Maurice Bishop, a Granada – massacrato dalle truppe degli Stati Uniti – dall’ascesa e dalla caduta della Rivoluzione sandinista; dalla lotta del popolo di El Salvador. In Brasile, il Partito dei Lavoratori è arrivato al Governo con l’elezione di Lula; in Guatemala, le pressioni indigene hanno conquistato spazi significativi; in Messico, gli zapatisti del Chiapas, hanno imposto un nodo alla politica neoliberista.


C’è molto da fare, caro Che. Preserviamo affettuosamente le tue maggiori eredità: lo spirito internazionalista e la Rivoluzione cubana. L’una e l’altra cosa si intersecano come un solo simbolo. Comanda Fidel, la Rivoluzione cubana resiste al blocco imperialista, alla caduta dell’Unione Sovietica, alla scarsità di petrolio, ai media che tentano di demonizzarla. Resiste con tutta la sua ricchezza di amore e di umore, salsa e merengue, difesa della Patria e valorizzazione della vita. Attenta alla tua voce, manda avanti il processo di rettifica, cosciente degli errori commessi e impegnata – badando alle difficoltà attuali – a far diventare realtà il sogno di una società nella quale la libertà di uno sia la condizione di giustizia dell’altro.


Da dove stai, Che, dai la tua benedizione a noi, che siamo in comunione con le tue idee e con le tue speranze. Benedici anche quelli che si sono stancati, che si sono imborghesiti o che hanno fatto della lotta una professione a proprio beneficio. Benedici quelli che hanno vergogna di confessarsi di sinistra e di dichiararsi socialisti. Benedici i dirigenti politici che, una volta che hanno lasciato i loro incarichi, non hanno mai più visitato una favela o appoggiato una mobilitazione. Benedici le donne che, in casa, hanno scoperto che i propri compagni erano il contrario di quello che proclamavano fuori, e anche gli uomini che lottano per vincere il machismo che li domina.


Benedici tutti quelli che, di fronte a tante miserie che dobbiamo sradicare della nostra esistenza, sanno che non ci rimane altra possibilità che quella di convertire cuori e menti per rivoluzionare società e continenti. Soprattutto, dacci la tua benedizione affinché, tutti i giorni, siamo motivati da grandi sentimenti di amore, in modo da raccogliere il frutto dell’uomo e della donna nuovi.










Che siano eletti o non eletti

DIECI CONSIGLI PER I MILITANTI DI SINISTRA

Da studiare e da applicare


Frei Betto


1. MANTIENI VIVA L’INDIGNAZIONE


Verifica periodicamente se sei realmente di sinistra. Adotta il criterio di Norberto Bobbio: la destra considera la disuguaglianza sociale naturale come la differenza tra il giorno e la notte. La sinistra l’affronta come un’aberrazione che deve essere sradicata. Attenzione: puoi essere contagiato dal virus social-democratico i cui principali sintomi sono quelli di usare metodi di destra per ottenere conquiste di sinistra e, in caso di conflitto, dispiacere ai piccoli per non fare brutta figura coi grandi.


2. LA TESTA PENSA DOVE I PIEDI CALPESTANO

Non si può essere di sinistra senza “sporcarsi” le scarpe là dove il popolo vive, lotta, soffre. Rallegrati e condividi le sue opinioni e le sue vittorie. Teoria senza pratica è fare il gioco alla destra.


3. NON VERGOGNARTI DI CREDERE NEL SOCIALISMO


Lo scandalo dell’Inquisizione non fece sì che i cristiani abbandonassero i valori e le proposte del Vangelo. Allo stesso modo, il fallimento del socialismo nell’Est europeo non deve indurre a scartare il socialismo dall’orizzonte della storia umana.

Il capitalismo, vigente da 200 anni, è fallito per la maggior parte della popolazione mondiale. Oggi, siamo 6 miliardi di abitanti. Secondo la Banca Mondiale, 2,8 miliardi sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno. E 1,2 miliardi, con meno di l dollaro al giorno. La globalizzazione della miseria non è maggiore grazie al socialismo cinese che, nonostante i suoi errori, assicura alimentazione, salute ed educazione a 1,2 miliardi di persone.


4. SII CRITICO SENZA PERDERE L’AUTOCRITICA


Molti militanti di sinistra cambiano parte quando cominciano a cercare pidocchi sulla testa di uno spillo. Lontani dal potere, diventano acidi e accusano i loro compagni(e) di errori e indecisioni. Come dice Gesù, vediamo un granello di polvere nell’occhio dell’altro, ma non la trave nel nostro. Neanche si danno disponibili per migliorare le cose. Rimangono come semplici spettatori e giudici e, alcuni, vengono catturati dal sistema.

Autocritica è non solo ammettere i propri errori. È ammettere di essere criticati dai compagni.


5. SAPPI LA DIFFERENZA TRA MILITANTE E “MILITONTO”


“Militonto” è quello che si vanta di essere dappertutto, di partecipare a tutti gli eventi e movimenti, di agire su tutti i fronti. Il suo linguaggio è pieno di spiegazioni e gli effetti delle sue azioni sono superficiali. Il militante approfondisce i suoi vincoli con il popolo, studia, riflette, medita; stima in modo preciso la sua area di comportamento e di attività, valuta i vincoli organici e i progetti comuni.


6. SII RIGOROSO NELL’ETICA DELLA MILITANZA


La sinistra agisce per principi. La destra, per interessi. Un militante di sinistra può perdere tutto, la libertà, l’impiego, la vita. Meno la morale. Perdendo la morale, fa perdere la morale alla causa che difende e rappresenta. Presta un inestimabile servizio alla destra. Ci sono arrivisti mascherati da militanti di sinistra. Sono gli individui che si danno da fare puntando, in primo luogo, alla loro ascesa al potere. In nome di una causa collettiva, cercano prima di tutto i loro interessi personali. Il vero militante – come Gesù, Gandhi, Che Guevara – è un servitore, disposto a dare la propria vita affinché altri abbiano vita. Non si sente umiliato per non stare al potere, o orgoglioso se lo è. Egli non si confonde con la funzione che occupa.


7. ALIMENTATI NELLA TRADIZIONE DELLA SINISTRA


È necessaria la preghiera per coltivare la fede, l’affetto per nutrire l’amore della coppia, “tornare alle fonti” per mantenere accesa la mistica della militanza. Conosci la storia della sinistra, leggi (auto)biografie, come il “Diario del Che in Bolivia”, e romanzi come “La Madre”, di Gorki, o “L’uva dell’Ira”, di Steinbeck.

8. PREFERISCI IL RISCHIO DI SBAGLIARE CON I POVERI ALL’AVERE LA PRETESA DI AVERE CERTEZZE SENZA DI LORO


Convivere con i poveri non è facile. Prima, c’è la tendenza a idealizzarli. Dopo, si scopre che tra essi esistono gli stessi vizi trovati nelle altre classi sociali. Essi non sono né migliori né peggiori degli altri esseri umani. La differenza è che sono poveri, cioè, persone private ingiustamente e non per loro volontà dei beni essenziali per una vita dignitosa. Per questo motivo, stiamo dalla loro parte. Per una questione di giustizia. Un militante di sinistra non negozia mai i diritti dei poveri e sa imparare da loro.


9. DIFENDI SEMPRE GLI OPPRESSI, ANCHE QUANDO APPARENTEMENTE ESSI NON HANNO RAGIONE


Sono tante le sofferenze dei poveri del mondo che non ci si può aspettare da loro che abbiano atteggiamenti che non compaiono neanche nella vita di coloro che hanno avuto un’educazione raffinata. In tutti i settori della società ci sono corrotti e banditi. La differenza è che, nell’élite, la corruzione si esercita con la protezione della legge e i banditi sono difesi da meccanismi economici sofisticati che permettono che un speculatore porti una nazione intera alla povertà. La vita è il dono maggiore di Dio. L’esistenza della povertà grida vendetta. Non sperare mai di essere compreso da chi favorisce l’oppressione dei poveri.


10. FAI DELLA PREGHIERA UN ANTIDOTO CONTRO L’ALIENAZIONE


Pregare è lasciarsi mettere in discussione dallo Spirito di Dio. Molte volte smettiamo di pregare per non sentire la chiamata divina che ci chiede la nostra conversione, è questo, il cambiamento della direzione nella vita. Parliamo come militanti e viviamo come borghesi, sistemati in una comoda posizione di giudici di chi lotta. Pregare è permettere che Dio sovverta la nostra esistenza, insegnandoci ad amare come Gesù amava, liberamente.

Non voglio vedere la tua morte (alla moglie)


André Gorz


Non voglio più, secondo la formula di Georges Bataille, rimandare l’esistenza a più tardi.

Sono attento alla tua presenza come ai nostri inizi e mi piacerebbe fartelo sentire. Mi hai dato tutta la tua vita e tutto di te; vorrei poterti dare tutto di me durante il tempo che ci resta.

Hai appena compiuto 82 anni. Sei sempre bella, elegante e desiderabile. Viviamo insieme da 58 anni e ti amo più che mai.

Recentemente mi sono innamorato ancora una volta di te e porto in me un vuoto divorante che riempie solo il tuo corpo stretto contro il mio.

La notte vedo talvolta il profilo di un uomo che su una strada vuota e in un paesaggio deserto, cammina dietro un feretro. Quest’uomo sono io. Il feretro ti porta via.

Non voglio assistere alla tua cremazione: non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri…

Spio il tuo respiro, la mia mano ti sfiora.

A ognuno di noi due piacerebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro. Ci siamo spesso detti che se, per assurdo avessimo una seconda vita vorremmo passarla insieme.


da André GORZ, Lettre a D. Histoire d’un amour.





Quaderni C.I.P.E.C.


n. 1, aprile 1995

Lucia Canova, donna e comunista

Il PSIUP in provincia (Sergio Dalmasso)


n. 2, ottobre 1995

Chiaffredo Rossa, scalpellino

La nuova sinistra nella provincia bianca (Sergio Dalmasso)

Bibliografa sulla sinistra cuneese (Carlo Giordano)


n. 3, novembre 1995

Maria Capello, la ragazza rossa (Cetta Berardo)

Testimonianze di Carlin Petrini e Sergio Dalmasso

Bra fra slanci rivoluzionari e reazione fascista (Livio Berardo)


n. 4, luglio 1996

Le vicende elettorali delle forze politiche cuneesi (1945/1996)

Tabelle, grafici, saggi introduttivi di Felice Paolo Maero e Sergio Dalmasso, grafici di

Marco Dalmasso


n. 5, marzo 1997

Militanti e dirigenti del PCI negli anni '50 e '60 (Pietro Panero, Mila Montalenti,

Mario Romano, Walter Botto, Leopoldo Attilio Martino).

Introduzione di Sergio Dalmasso


n. 6, maggio 1997

Lettere dal confino di Giovanni Barale (1939-1941). A cura di Luigi Dalmasso


n. 7, ottobre 1997

Per ricordare Michele Risso, Atti del convegno, Boves, 1 marzo 1996

(Luigi Pellegrino, Sergio Dalmasso, Agostino Pirella, Franca Ongaro Basaglia,

Pietro Ingrao, Gianna Tangolo, Regina Chiecchio)


n. 8, gennaio 1998

Luigi Borgna

Pietro Panero

Appunti sul PSI-PSDI (Mario Pecollo)

Lo sciopero dei Pumet: Dronero, primavera 1954 (Carlo Giordano)


n. 9, maggio 1998

Il PCI dalla "legge truffa" alla morte del "migliore" (Sergio Dalmasso)


n. 10, luglio 1998

Comunisti nel cuneese, scritti a cura di Giuseppe Biancani (1920-1981), a cura di

Luigi Bertone


n. 11, ottobre 1998

Fascismo oggi, vecchi e nuovi miti (Marco Revelli)

"Incompiuti"


n. 12, marzo 1999

I 95 anni di Lucia Canova

Oronzo Tangolo scritti

Testimonianze di Mario Di Meglio e Sergio Dalmasso


n. 13, aprile 1999

Quell'estate a Ulan Bator (Enzo Santarelli)

Maria Capello, elogio dell'eresia (Sergio Dalmasso)

Oronzo Tangolo (Roberto Baravalle)

Testimonianze sul PSIUP cuneese (Mario Pellegrino, Eraldo Zonta,

Giuseppe Costamagna)

"Incompiuti"


n. 14, maggio 1999

I colloqui di Dresda

La CGIL a Cuneo negli anni '50-'60 (Livio Berardo). Testimonianze di

Francesco Angeloni, Giuseppe Trosso, Marcello Faloppa

"Incompiuti"


n. 15, agosto 1999

1945-1958. Il caso Giolitti e la sinistra cuneese del dopoguerra (Sergio Dalmasso)


n. 16, settembre 2000

1958-1976. I rossi nella "granda". La sinistra in provincia di Cuneo (Sergio Dalmasso)


n. 17, ottobre 2000

1976-1992. Appunti sui partiti politici nel cuneese (Sergio Dalmasso)


n. 18, novembre 2000

Comunisti a Mondovì: Mario Giaccone, Concetta Giugia.

Il secondo "biennio rosso" (Sergio Dalmasso)

Il sessantotto a Cuneo (Sergio Dalmasso)


n. 19, aprile 2002

Il Novecento nella storiografia di fine secolo (Sergio Dalmasso,

Luigi Bertone, Michele Girardo)

Dino Giacosa: la coerenza (Sergio Dalmasso)

Riformismo e riforme nella sinistra italiana (Sergio Dalmasso)

I partiti socialisti, il centro- sinistra, la pianificazione nella

lettura della rivista "Questitalia" (Sergio Dalmasso)


n. 20, aprile 2002

Dalla Bolognina a Pristina: Cronologia di articoli su una resa:

29 ottobre 1998 - 29 maggio 2000 (Beppe Nicola)

Ricordi di Maria Teresa Rossi e di Franco Camicia (Sergio Dalmasso)


n. 21, maggio 2002

1958- 1976. I rossi nella "Granda". La sinistra in provincia di Cuneo

(Sergio Dalmasso): Seconda edizione con breve appendice.


n. 22, agosto 2002

La carovana di Lotta Continua e l'"eterno" problema dell'organizzazione

(Diego Giachetti)

Le sofferenze del PCI torinese negli anni dei governi di unità nazionale

(Ida Frangella e Diego Giachetti)


n. 23, novembre 2002

Le vicende elettorali delle forze politiche cuneesi (1945/2001)

Tabelle, grafici, saggi introduttivi di Felice Paolo Maero e Sergio Dalmasso


n. 24, gennaio 2003

Convegno Antisemitismo, razzismo, nuove destre (Luca Sossella, Luigi Urettini,

Sergio Dalmasso, Saverio Ferrari)

Un altro comunismo? (Sergio Dalmasso)

Unificazione europea? (Francesco Lamensa)

n. 25, febbraio 2003

Comunisti a Mondovì. In ricordo di Concetta Giugia Giaccone.

Lelio Basso nella storia del socialismo italiano (Luciano Della Mea, Rocco Cerrato, Sergio

Dalmasso, Piero Basso)

Rifondare è difficile. Rifondazione Comunista dallo scioglimento del PCI al “movimento dei

movimenti” di Sergio Dalmasso: recensioni, schede, segnalazioni.


n. 26, giugno 2003

La nuova sinistra italiana e la guerra di guerriglia durante gli anni ’60 (Aldina Trombini)


n. 27, gennaio 2004

Comunisti/e a Boves (Bartolomeo Giuliano, Edda Arniani, Carmelo Manduca, Giovanni “Spartaco”

Ghinamo) a cura di Sergio Dalmasso.


n. 28, febbraio 2004

Alberto Manna, Consigliere provinciale. Interventi al Consiglio provinciale di Cuneo (1995-1999)


n. 29, giugno 2005

Come era bella la mia Quarta (Silvio Paolicchi)

Ancora su foibe, fascismo antifascismo (Gianni Alasia)

Piccole storie dentro una grande storia (Enrico Rossi)

I miei amici cantautori (Sergio Dalmasso)


n. 30, ottobre 2005

Rifondare è difficile. Rifondazione Comunista dallo scioglimento del PCI al “movimento dei

movimenti” (Sergio Dalmasso)


n. 31 novembre 2005

Ristampa quaderno n. 7 Per ricordare Michele Risso, Atti del convegno, Boves, 1 marzo 1996 (Luigi Pellegrino, Sergio Dalmasso, Agostino Pirella, Franca Ongaro Basaglia, Pietro Ingrao, Gianna Tangolo, Regina Chiecchio)


n. 32 marzo 2006

Appunti sul Socialismo Italiano. a cura di Sergio Dalmasso


n. 33 settembre 2006

Comunisti/e a Boves. a cura di Sergio Dalmasso


n. 34 gennaio 2007

La Lega Nord nel Cuneese. a cura di Sergio Dalmasso e Fabio Dalmasso


n. 35 febbraio 2007

Gianni Alasia

a cura di Sergio Dalmasso, Vittorio Rieser, Fabio Dalmasso, Claudio Vaccaneo


n. 36 maggio 2007

Michele Risso: scritti e bibliografia.. a cura di Sergio Dalmasso.


n. 37 ottobre 2007

1307 – 2007.

700 anni dopo. Fra Dolcino e Margherita a cura di Sergio Dalmasso.


n. 38 gennaio 2008

I decenni della nostra storia, a cura di Sergio Dalmasso.


n. 39 aprile 2008

Per la Rifondazione, a cura di Sergio Dalmasso.


n. 40 agosto 2008

Cronache e lotte contadine, a cura di Sergio Dalmasso.

CIPEC ATTIVITA’


Anno 1986-1987

Ciclo: "Marxismo oggi":

- Marx oggi (Gian Mario Bravo)

- Il marxismo nella Terza Internazionale (Aldo Agosti)

- Per una ricostruzione del pensiero marxista (Costanzo Preve)

- Il proletariato in Marx (Cesare Pianciola)

- Il pensiero di Bloch (Laura Boela)


Anno 1988-1989

Ciclo: "Le rivoluzioni del '900":

- Rivoluzione francese (Costanzo Preve)

- Rivoluzione sovietica (Massimo Bontempelli)

- Rosa Luxemburg (Cosimo Scarinzi)

- Stalin, Trotskij, Bucharin, Togliatti (Antonio Moscato, Marco Rizzo)

- Rivoluzione cinese (Edoarda Masi)

- Rivoluzione cubana (Enrico Luzzati)

- La Palestina (Guido Valabrega)


Anno 1989-1990

continuazione del Ciclo:

- I paesi dell'est (Guido Valabrega)

- Il Sudafrica (Edgardo Pellegrini)


Anno 1990-1991

Ciclo: "Marxismo e...":

- Marxismo e femminismo (Nadia Casadei)

- Marxismo e libertà (Ludovico Geymonat)

- Marxismo e ecologia (Tiziano Bagarolo)

- Marxismo e economia (Riccardo Bellofiore)

- Marxismo e religione (Emanuele Paschetto)

- Marxismo e psiconalisi (Mario Spinella)

- Marxismo e nonviolenza (Enrico Peyretti)


Anno 1991-1992

Ciclo: "500 anni bastano":

- La storia della conquista (Franco Surdich)

- Il popolo Mapuche - Cile (Nelly Ayenao)

- Gli indiani del nord (Nayla Clerici)

- La Chiesa in America Latina (Giulio Girardi)


Anno 1992-1993

continuazione del Ciclo:

- Nord/Sud del mondo e il debito (Gerson Guymaraes)

- L'ambiente e la conferenza di Rio (Carlo Daghino)

- Proiezione video sugli incidenti razziali a Los Angeles

- Che Guevara (Gianluca Giachery e Sergio Dalmasso)

- Marxismo e nazionalità (Renato Monteleone)

- Ricordo di Ludovico Geymonat, filosofo della libertà (Fabio Minazzi)


Anno 1993-1994

Ciclo: "Marx oggi": - Il marxismo in Italia (Costanzo Preve)

- Il marxismo nel terzo mondo (Enrica Collotti Pischel)

- Marxismo oggi (Romano Madera)

Ciclo: "Storia della psicoanalisi"

- Freud (Alberto Camisassa)

- Jung (Giorgio Raimondi)

- Adler (Adriana Roatti Garzillo)

- Reich (Beppe Corona e Giorgina Lerda)

- Teorie freudiane e pratica terapeutica (Angelo Mondini)

- La micropsicoanalisi (Liliana Zonta)


Anno 1994-1995

Ciclo: "Analisi e terapie":

- Gestalt (Mario Frusi)

- Comportamentismo (Aldo Lamberto)

- Analisi sistematica (Massimo Schinco)

- Terapia del contatto (Luciano Jolly)

- Terapia del movimento (Elide Bono)

- Psicodramma (Giorgio Raimondi)

Fuori ciclo:

- La nuova sinistra: per un bilancio storico politico (Marco Revelli, Paolo Ferrero, Oscar Mazzoleni, Sergio Dalmasso)


Anno 1995-1996

Leone Trotsjij, un fantasma nella storia (Gigi Viglino)

- Storia, geografa, economia davanti ai problemi globali del mondo (Manlio Dinucci)

- Psichiatria democratica (Agostino Pirella, Paolo Henry)

- Per ricordare Michele Risso (Agostino Pirella)


Anno 1996-1997

- Guevara e l'America latina (Antonio Moscato) - Il caso Sofri-Calabresi, Lotta Continua (Ennio Pattoglio, Sergio Dalmasso)

- Democrazia Proletaria, "Camminare eretti" (Giannino Marzola)

- Lelio Basso nel socialismo italiano (Sergio Dalmasso)

- Storia critica della repubblica (Enzo Santarelli)

- Riviste a sinistra (Marco Scavino)

- Salute mentale e superamento dei manicomi (Agostino Pirella)


Anno 1997-1998

Il Che, 30 anni dopo (Antonio Moscato)

La rivoluzione Sovietica (Roberto Preve)

La globalizzazione (Franco Turigliatto, Raffaello Renzacci)

Una scelta di vita (Eugenio Melandri)

Il Perù e l'America latina (Isaac Velasco)

Il lavoro minorile (Carlo Daghino

Il caso Sofri (Fabio Levi)

Il Chiapas oggi (Luigi Urettini, Chiara Vergano)


Ciclo: "Immagini dell'uomo":

- Rapporto terapeuta/paziente

- Rapporto genitori/figli

- Rapporto uomo/donna


Anno 1998-1999

Kurdistan (Laura Schrader, Hasti Fatah)

La rivoluzione non violenta dei Sem Terra (Nadia Demond, Michelangelo Ramero)


Ciclo: "Quanto vuoi?":

- Prostituzione e immigrazione (Fredo Olivero)

- Aspetti antropologici della prostituzione (Giancarlo Ferrero)

- Prostituta e cliente (Franco Barbero, Carla Corso)


Ocalan libero (Laura Schrader, Hasti Fatah)

Guerra e democrazia (Raniero La Valle)

Nodi storici e religiosi nei Balcani (mons. Diego Bona, Luigi Cortesi)

"Attraverso il filo", il caso Silvia Baraldini (Maurizio Buzzini)


Anno 1999-2000

Ciclo: "100 anni di psicoanalisi":

- Analista - cliente

- Le età

- Psicoanalisi e sessualità

- Marxismo ed ecologia, Ecofemminismo (Tiziano Bagarolo, Antonella Visintin)

- La globalizzazione in America latina (Marina Ponti)

- Il viaggio del Che in America latina (Antonio Moscato)

- Presentazione del libro: Siamo solo noi, Vasco Rossi (Diego Giachetti)

- Quale carcere? (Beppe Manfredi, don Elvio Davoli)

- Presentazione "Rivista del Manifesto" (Giancarlo Aresta)

- Presentazione rivista "Carta" (Marco Revelli)

Convegno “1968-1969, il biennio rosso” (Luigi Urettini, Sergio Dalmasso, Diego Giachetti, Carla Pagliero, Franco Bagnis, Fabio Panero, Vittorio Bellavite, Carlo Carlevaris, Mario Cordero, Roberto Niccolai, Marco Scavino, Vittorio Rieser, Carlo Marletti)

Ciclo Datemi una barca (Scuola di pace di Boves):

- Giubileo e debito internazionale (Giulio Girardi)

- Il sistema globale (Manlio Dinucci)

- Teologia della liberazione e diritti umani (Josè Ramos Regidor)

- I movimenti rivoluzionari in America latina (Antonio Moscato)


Anno 2000-2001

- Sinistra alternativa, plurale, sociale? (Marco Prina, Gianna Tangolo, Alfredo Salsano, Fulvio Perini)

- I rossi nella Granda (Mario Borgna, Alberto Cipellini, Sergio Dalmasso)

- Convegno: "Gli anni '70" (Marco Scavino, Sergio Dalmasso, Vittorio Bellavite, Diego Giachetti,

Diego Novelli, Mario Renosio, Carla Pagliero, Gigi Malaroda, Pina Sardella, Nicoletta Giorda)

- Convegno: "Razzismo, antisemitismo, nuova destra" (Luigi Urettini, Moni Ovadia, Saverio Ferrari, Guido Caldiron, Remo Schellino, Mario Renosio, Sergio Dalmasso)

Ciclo Gli esclusi (Scuola di pace di Boves)

- La conquista dell'America dalla parte dei vinti (Giulio Girardi)

- Fabrizio De Andrè, cantante degli umili (Romano Giuffrida)

- I nostri amici cantautori (concerto)


Anno 2001-2002

- Presentazione del libro “Rifondare è difficile” di Sergio Dalmasso (Gastone Cottino)

- Convegno "Cosa resterà di questi anni '80?" (Diego Berra, Sergio Dalmasso, Claudio Mondino, Marinella Morini, Fulvio Perini, Lucio Magri, Marco Revelli, Lidia Cirillo, Diego Giachetti, Carla Pagliero).

- La crisi argentina (Antonio Moscato)

Ciclo "Gli esclusi" (Scuola di pace di Boves)

- La canzone popolare (Fausto Amodei)

- Un altro comunismo: Leone Trotskij, Rosa Luxemburg (Antonio Moscato)

- La Palestina (esponente dell'OLP)


Anno 2002-2003

- Globalizzazione ed economia (Nerio Nesi)

- Sindacato e movimenti dopo Firenze (Mario Agostinelli)

Convegno "Vent'anni della Scuola di pace di Boves"

- La marcia delle donne (Nicoletta Pirotta)

- L'alternativa al liberismo e al terrorismo (Giulio Girardi)

- Vent'anni di storia, vent'anni di guerre (Luigi Cortesi)

- Ernesto Balducci, Gunther Anders e il pacifismo di oggi (Enzo Mazzi, Luigi Cortesi)

- Convegno "1945/1948: gli anni della ricostruzione" (Sergio Dalmasso, Marinella Morini, Martino Pellegrino, Laurana Lajolo, Elena Cometti, Fabio Panero, Claudio Biancani, Michele Calandri, Paolo Perlo, Carla Pagliero, Sofia Giardino)


Anno 2004-2005

- Ciao Raffaello, in ricordo di Raffaello Renzacci (Giorgio Cremaschi, Fulvio Perini, Franco Turigliatto, Rocco Papandrea, Sergio Dalmasso).

- Liberalismo e liberismo (Sergio Dalmasso).

- Comunismo, marxismi, democrazia (Sergio Dalmasso).

- Riccardo Lombardi, per una società diversamente ricca (Nerio Nesi, Giancarlo Boselli, Sergio Dalmasso).

- Rosa Luxemburg (Sergio Dalmasso).

- Convegno “Gli anni ’60” (Daniela Bernagozzi, Carla Pagliero, Diego Giachetti, Marinella Morini, Sofia Giardino, Chiara Rota, Giuliano Martignetti).


Anno 2005-2006

- La stagione dei movimenti (Sergio Dalmasso).

- La questione palestinese (Cinzia Nachira)

- Film: Noi non abbiamo vinto? (Gianni Sartorio, Giampiero Leo, Sergio Dalmasso)


Anno 2006-2007

- 1956: l’invasione dell’Ungheria (Mario Martini, Gianni Alasia, Sergio Dalmasso)

- Comunisti/e a Boves (Nello Pacifico, Sergio Dalmasso)

- Totalitarismi e democrazia (Sergio Dalmasso)

Anno 2006-2007

- “40 anni senza il Che” (Antonio Moscato, Giacomo Divizia, Sergio Dalmasso

1 Cfr. Carlo BO, Morte della parrocchia, in “La Stampa”, 31 agosto 1958 e Arturo Carlo JEMOLO, La parrocchia, 16 luglio 1958, articolo in cui il testo di Milani è abbinato a La parrocchia di don Primo Mazzolari.

2 c.m., Morte della parrocchia, in “Bollettino di informazioni”, 4 ottobre 1958.


3 La lettera è riportata parzialmente in Neera FALLACI, Dalla parte dell’ultimo, vita del prete Lorenzo Milani, Milano libri edizioni, 1974.

4 In Neera FALLACI, Dalla parte dell’ultimo…, cit., pg.474.

5 Lorenzo MILANI, Lettera a Gosto Barbieri, 20 settembre 1966.

6 Scuola di BARBIANA, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1967.

7 Ivi.

8 Qualche parola astrusa la potrà trovare in Esperienze pastorali, ma in Lettera a una professoressa no davvero. Era rivolta ai poveri ed era stata scritta su misura dei poveri. Testimonianza di Giorgio FALOSSI in Neera FALLACI, Dalla parte dell’ultimo, cit.

9 Marcello INGHILESI, La scuola di classe, in “Testimonianze”, n. 100, dicembre 1967.

10 Carlo PRANDI, Esperienze pastorali, ricerca sociologica e autobiografia spirituale, ivi.

11 Pietro INGRAO, Profeta disarmato?, ivi.


12 Il testo integrale del comunicato, comparso su La Nazione di venerdì 12 febbraio 1965 sotto il titolo I cappellani militari e l’obiezione di coscienza, è riportato in appendice.

Per amor di cronaca e di verità occorre informare che la notizia riportata da La Nazione non era completamente esatta. Lo stesso don Milani ebbe modo di rilevare - in seguito - che l’articolo in questione “Si presentava come un «Comunicato dei cappellani militari in congedo della regione toscana». Più tardi abbiamo saputo che già questa dizione e scorretta. Solo 20 di essi erano presenti alla riunione su un totale di 120. Non ho potuto appurare quanti fossero stati avvertiti. Personalmente ne conosco uno solo: don Vittorio Vacchiano, pievano di Vicchio. Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato” (Milani Lorenzo, Lettera ai giudici, in L’obbedienza non e più una virtù - Documenti del processo di don Milani, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1991, pag.32).


13 La scuola di Barbiana era abbonata al quotidiano milanese II Giorno e dedicava molto tempo alla lettura del giornale. “Leggiamo ogni giorno II Giorno a alta voce (cosa che ci prende da una a due ore di scuola)... Noi gli dedichiamo circa 500 ore l’anno, 1/8 della nostra scuola, quasi l’equivalente di un anno scolastico nella scuola di stato (600 ore)” (lettera privata, datata 19 aprile 1965, inviata da don Milani al giornalista Enzo Forcella, riprodotta in Fallaci Neera, Vita del prete Lorenzo Milani - Dalla parte dell’ultimo, Milano, Rizzoli, 1993, pagg.431-432).

14

“Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita” (Milani, Lettera ai giudici, in L’obbedienza…, cit., pagg.33-34).


15 Il testo integrale della lettera è riportato in appendice. D’ora in avanti - per comodità - faremo riferimento al documento con il termine Lettera.


16 “Se vuole agire efficacemente mediante il suo discorso, l’oratore deve adattarsi al suo uditorio. In che cosa consiste questo adattamento che rappresenta una esigenza specifica dell’argomentazione? Fondamentalmente, nel fatto che l’oratore può scegliere come punto di partenza del suo ragionamento solo tesi ammesse da coloro a cui si rivolge.

In effetti, a differenza della dimostrazione, lo scopo dell’argomentazione non e quello di provare la verità della conclusione a partire da quella delle premesse, ma di trasferire sulle conclusioni l’adesione ad esse accordata” (Perelman Chaïm, Il dominio retorico - Retorica e argomentazione, Torino, Einaudi, 1981, pag.33).

17

“Chi vaticina senza preoccuparsi delle reazioni di colui che lo ascolta viene ben presto considerato un visionario, in preda a demoni interiori, piuttosto che come un uomo ragionevole che cerca di far condividere le sue convinzioni” (Perelman, Il dominio retorico..., cit., pag.27).


18 Esistono due forme essenziali di obiezione di coscienza al servizio militare: l’obiezione di coscienza di tipo assoluto e l’obiezione di coscienza di tipo relativo. La prima è propria degli obiettori intransigenti, che rifiutano di prestare sia il servizio militare sia qualsiasi servizio sostitutivo al servizio militare. Essi contestano i commi primo e secondo dellart.52 della Costituzione: non ritengono che la difesa della Patria sia sacro dovere del cittadino e ricusano lobbligo di svolgere il servizio militare nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. La seconda caratterizza gli obiettori moderati, disposti a prestare un servizio civile in sostituzione del servizio militare. Questi ultimi obiettano esclusivamente al comma secondo dellart.52 della Costituzione: non dubitano che la difesa della Patria sia un sacro dovere del cittadino ma chiedono di contribuire a tale difesa con metodi diversi dalladdestramento alluso delle armi. Mentre lobiezione di coscienza al servizio militare in forma assoluta si manifesta in un unico atteggiamento (il rifiuto radicale di indossare luniforme militare dopo aver dichiarato la propria obiezione sin dalla visita di leva), lobiezione di coscienza al servizio militare in forma relativa si esprime attraverso le modalità più diverse e varie: vi è chi si adatta a un servizio militare nelle unità di sanità, obiettando soltanto al partecipare attivamente alle azioni belliche nelle truppe combattenti; chi subisce linquadramento nelle truppe combattenti accettando ogni disciplina, ma in via pratica si rifiuta poi di andare al combattimento con le armi alla mano ritenendo piuttosto di poter essere ucciso anziché uccidere altri; chi si oppone in altro modo alluso specifico delle armi e, pertanto, dopo larruolamento rifiuta di ricevere in consegna un fucile o di essere istruito sul funzionamento di un pezzo d'artiglieria; vi è infine chi, pur avendo fatto il servizio militare di leva, si oppone ad un successivo richiamo alle armi per una causa che ripugna alla propria coscienza.


19 Don Milani stesso non avrà, in futuro, alcun problema ad ammettere: “Ora a me pare che sia spiegato, ma non tutti lo hanno capito (...) che a noi dell’obiezione di coscienza non ci importa assolutamente nulla, ma che ci commuove il fatto che questi giovani obiettori siano in prigione... senza un motivo. Ci commuove: trenta persone sono trenta creature e hanno diritto di sortirne perché non hanno fatto assolutamente una cosa da essere in prigione. C’è ben altre cose per cui si dovrebbe essere in prigione, e non quelle. Sicché il fatto è degno di muoversi, scrivere, (trascrizione letterale) eccetera... Ma che l’obiezione di coscienza sia una questione grossa, per noi assolutamente no (...). È stata però occasione di un discorso molto più ampio sull’obbedienza in genere, cioè sul senso di responsabilità individuale eccetera…” (da “Strumenti e condizionamenti dell’informazione”, lezione ad allievi - giornalisti registrata alla scuola di Barbiana nel dicembre 1965, trascritta in Pecorini Giorgio, Don Milani! Chi era costui?, Milano, Baldini & Castoldi, 1996, pagg. 377-378). E a Michele Gesualdi, il primo allievo della scuola di Barbiana ad esser chiamato a prestare il servizio militare, incerto se obiettare oppure no, scrisse: “...teniamo tutti e due i piedi ben saldi per terra. In ultima analisi sai bene che le lodi agli obiettori nella mia lettera sono del tutto casuali perché la mia tesi fondamentale è proprio la obiezione a singoli atti cattivi. Ora diciamoci chiaramente che marciare, fare il saluto, vestire con le stellette o senza, dire signorsì, infilare sacchetti di sabbia con la baionetta, sono cose ridicole ma non assolutamente cattive. O almeno non cosi cattive da valer la pena di andare in prigione per non farle. Ti prego di leggere accuratamente il testo della mia lettera incriminata e di quella al tribunale e convincerti che cose del genere ci stonerebbero. Di fronte alla chiarezza universale della frase «il cristiano deve rifiutarsi di incendiare un villaggio con donne e bambini», stonerebbe la frase «il cristiano deve rifiutarsi di mettersi sull’attenti»...” (lettera privata, datata 28 settembre 1965, inviata da don Milani a Michele Gesualdi, riprodotta in Gesualdi (a cura di), Lettere di don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, Milano, Mondadori, 1970, pagg.215-2I6).


20 “Un discorso convincente e quello le cui premesse e i cui argomenti sono universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio da tutti i membri dell’uditorio universale” (Perelman, Il dominio retorico..., cit., pag.29).


21 Secondo gli studi di George Lakoff e di Mark Johnson sull’influenza della metafora in ogni aspetto della vita quotidiana, possiamo definire ogni disputa come metafora di una guerra. Almeno sei aspetti - infatti - accomunano le guerre combattute con le parole e le guerre combattute sui campi di battaglia. Essi sono: i partecipanti: avversari, appartenenti a diversi schieramenti; le parti: gli avversari, servendosi di strategie più o meno pianificate, mirano a indebolire le reciproche argomentazioni utilizzando tattiche di attacco, di difesa o di ritirata, fino alla vittoria o alla sconfitta finale; gli stadi: all’inizio i partecipanti occupano posizioni diverse. Ognuno di essi mira a difendere le proprie posizioni e a far capitolare l’avversario; la sequenza lineare: ritirata, difesa o contrattacco dopo l’attacco; la causa: l’attacco si risolve in difesa, o contrattacco, o ritirata o fine; lo scopo: la vittoria. In Lakoff George & Johnson Mark, Metafora e vita quotidiana, Milano, Espresso strumenti, 1982.


22 “... occasionale deviazione, o meglio «uscita» provvisoria, dall’argomento principale per trattare temi aggiuntivi ma pertinenti alla questione in esame (...) in sostanza, ogni inserzione di elementi nuovi, non narrativi: ogni atto linguistico, potremmo aggiungere, che interrompa il corso dell’esposizione mirando agli innumerevoli effetti diversi dall’informare, ai quali l’informazione stessa deve una parte della sua efficacia. Tali sono, per es., il rinfrancare, l’ammonire, il rendere ben disposto, il pregare, il blandire l’uditorio” (Mortara Garavelli Bice, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 1988, pag.72).


23 Il tipo di analisi retorica qui proposta è ispirata - con qualche semplificazione, dovuta a motivi di spazio - a quella elaborata in Perelman Chaïm & Olbrechts-Tyteca Lucie, Trattato dell’argomentazione - La nuova retorica, Torino, Einaudi, 1966, pag.69.


24 “Non sarà possibile né conforme al nostro proposito dare del fatto una definizione che permetta di classificare come «fatto», in ogni tempo e in ogni luogo, questo o quel dato concreto. Occorre al contrario insistere su questo punto, che cioè nell’argomentazione la nozione di «fatto» è caratterizzata unicamente dall’idea che si ha di un certo genere di accordi riguardo ad alcuni dati, quelli che si riferiscono ad una realtà obiettiva e indicano in ultima analisi (…) ciò che è comune a più esseri pensanti e potrebbe essere comune a tutti” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione..., cit., pag.71).


25 Può essere di non trascurabile importanza sottolineare che, se l’esattezza delle date e l’esistenza dei personaggi storici presi in considerazione da don Milani non sono in discussione (possono considerarsi “fatti” a tutti gli effetti), la loro presentazione. valutazione e - in qualche caso - eccessiva stilizzazione, costituirono il fondamento della maggior parte delle reazioni e delle polemiche che si abbatterono sulla Lettera.


26 Si tratta di “sistemi relativi a legami fra i fatti, si tratti di teorie scientifiche o di concezioni filosofiche o religiose che trascendono l’esperienza” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione..., cit., pag.73).


27 II fatto che don Milani giudichi un secolo di storia italiana (1860-1960) alla luce della Costituzione - entrata in vigore nel 1948 - potrebbe sembrare una forzatura. Egli giustifica così la propria scelta: “Voi giuristi dite che le leggi si riferiscono solo al futuro, ma noi gente della strada diciamo che la parola ripudia e molto più ricca di significato, abbraccia il passato e il futuro” (Milani. Lettera ai giudici. in L’obbedienza…, cit. pag.40).


28 “In ogni caso particolare le presunzioni sono legate a ciò che è normale e verosimile. Una presunzione (...) è che esista per ogni categoria di fatti, e soprattutto per ogni categoria di comportamenti, un aspetto considerato normale che può servire di base ai ragionamenti. La stessa esistenza di questo vincolo tra le presunzioni e la normalità, costituisce una presunzione generale ammessa da tutti gli uditori. Si presume fino a prova contraria che sia normale ciò che avverrà o è avvenuto. O piuttosto che il normale sia una base sulla quale possiamo fondare i nostri ragionamenti” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, cit. pag.75).


29 “L’accordo a proposito di un valore consiste nell’ammettere che un oggetto, essere concreto o ideale, deve esercitare sull’azione e sulle disposizioni all’azione una determinata influenza, della quale si può fare uso in una argomentazione, senza per questo ritenere che il corrispondente punto di vista s’imponga a tutti. L’esistenza dei valori come oggetti di accordo che permettano una comunione su particolari modi di agire, è legata all’idea della molteplicità dei gruppi” (Perelman & Olbrechts­-Tyteca, Trattato dell’argomentazione..., cit., pag.79).


30 “L’argomentazione non si appoggia soltanto su valori astratti e concreti, ma anche su gerarchie, quali la superiorità degli uomini sugli animali, degli dèi sugli uomini” (Perelman & Olbrechts-­Tyteca, Trattato dell’argomentazione..., cit., pag.85).


31 “... premesse di ordine generale che permettono di dare un fondamento ai valori e alle gerarchie” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione..., cit., pag.90). Si distinguono in luoghi di: quantità, qualità, ordine, esistenza, essenza e persona.


32I luoghi della qualità compaiono, nell’argomentazione, e si possono cogliere nel modo migliore, quando si contesta la virtù del numero. Sarà questo il caso dei riformatori, di coloro che si rivoltano contro l’opinione comune (...). II vero non può soccombere qualunque sia il numero dei suoi avversari. Siamo in presenza di un valore di un ordine superiore, incomparabile” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, cit., pagg.94-95).


33 “I luoghi dell’ordine affermano la superiorità dell’anteriore sul posteriore, vuoi della causa, dei principî, vuoi della fine o dello scopo. La superiorità dei principî, delle leggi sui fatti, sul concreto, che sembrano esserne l’applicazione, è ammessa nel pensiero non empirista” (Perelman & Olbrechts-­Tyteca, Trattato dell’argomentazione, cit., pag.99).


34 Procedimenti di associazione (“... schemi che avvicinano degli elementi distinti e permettono di stabilire tra loro una solidarietà mirante sia a strutturarli sia a valorizzarli positivamente o negativamente l’uno per mezzo dell’altro”. Perelman & Olbrechts-Tyteca. Trattato dell’argomentazione…, cit. pag.200) e procedimenti di dissociazione (“... tecniche di rottura aventi lo scopo di dissociare, di separare, di infrangere la solidarietà di elementi considerati come costituenti un tutto o per lo meno come una unità solidale in seno a uno stesso sistema di pensiero”. Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione…, cit., pagg.200-201).


35 “... pretendono di avere una certa forza di convinzione, in quanto si presentano confrontabili a ragionamenti formali, logici o matematici (...). In ogni argomento quasi-logico è possibile mettere in evidenza prima di tutto lo schema formale, secondo l’esempio del quale l’argomento è costruito, e in seguito le operazioni di riduzione, che permettono di inserire i dati in questo schema, e mirano a renderli confrontabili, simili, omogenei” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell.argomentazione…, cit. pag.203).


36 “L’asserzione, entro uno stesso sistema, di una proposizione e la sua negazione, rendendo manifesta una contraddizione che esso contiene, lo rende incoerente e perciò inutilizzabile. Rilevare l’incoerenza di un insieme di proposizioni significa esporlo a una condanna senza appello, costringe chi non vuol essere definito incongruente a rinunciare ad alcuni almeno degli elementi del sistema (...). Abitualmente l’argomentazione si sforzerà di mostrare che le tesi controbattute conducono ad una incompatibilità, che assomiglia a una contraddizione, in quanto consiste in due asserzioni tra le quali bisogna scegliere, a meno di rinunciare a entrambe” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione…, cit., pagg.205-206).


37 “Una delle tecniche essenziali dell’argomentazione quasi-logica e l’identificazione di diversi elementi che sono l’oggetto del discorso (...). Il procedimento più caratteristico di identificazione completa consiste nell’uso delle definizioni. Quando non fanno parte di un sistema formale, pur pretendendo di identificare il definiens con il definiendum, le definizioni saranno da noi considerate argomentazioni quasi-logiche. Non possiamo ammettere che tali definizioni possano essere fondate sull’evidenza di rapporti nozionali, perché ciò supporrebbe la chiarezza assoluta di tutti i termini messi a confronto” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione..., cit., pag.221).

38 “La regola di giustizia esige l’applicazione di un identico trattamento ad esseri o situazioni integrati in una stessa categoria. La razionalità di questa regola e la validità ad essa riconosciuta si connettono al principio di inerzia, dal quale risulta in particolare l’importanza che si riconosce al precedente” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione…, cit. pag.230).


39 “Gli argomenti di reciprocità mirano ad applicare lo stesso trattamento a due situazioni che si fanno riscontro. L’identificazione delle situazioni, necessaria perché sia applicabile la regola di giustizia, è qui indiretta, nel senso che richiede l’intervento della nozione di simmetria” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione…, cit., pag.233).


40 “La transitività è una proprietà formale di alcune relazioni, che permette di passare dall’affermazione che una stessa relazione esiste tra i termini A e B e fra i termini B e C: le relazioni di uguaglianza, di superiorità, di inclusione, di ascendenza, sono relazioni transitive” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione..., cit., pag.239).


41 Carlo Degli Innocenti, Mia patria sono gli oppressi, stranieri sono i privilegiati, l’Unità, mercoledì 3 marzo 1965; Pietro Buttitta, Sacerdoti prendono posizione contro la violenza, Avanti!, giovedì 4 marzo 1965.


42 I testi della denuncia e della Lettera ai giudici sono pubblicate integralmente in Milani, L’obbedienza..., cit., pagg.23-26 e 27-62).

43 Vedi Sergio DE SANTIS, Guerriglia e rivoluzione nel pensiero di Che Guevara, in “Rivista storica del socialismo” n. 30, 1967.

44 In “Maquis”, n. 1, 1968.

45 Non tocco il ruolo del Che nel cinema, nella letteratura, nella canzone, nell’immaginario giovanile e non solo. Rimando per questi temi al mio Il Che, immagini e letture, in AA. VV. La paura e l’utopia, Milano, ed. Punto rosso, 2001.

46 Ernesto Che GUEVARA, Tattica e strategia della rivoluzione latinoamericana, scritto nell’ottobre 1962, pubblicato postumo.

47 Ernesto Che GUEVARA, Discorso al Seminario economico di solidarietà afroasiatica, in Scritti scelti, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Erreemme edizioni, 1993.

48 Ernesto Che GUEVARA; Creare due, tre…molti Vietnam è la parola d’ordine, in Scritti scelti, citato.

49 Per un approfondimento sul tema vedi: Carlos TABLADA, Guevara, Bolsena, Erreemme ed., 1989, e Economia, etica e politica nel pensiero di Ernesto Che Guevara e il breve, ma denso scritto di Michael LOWY, Né calco né copia: Che Guevara alla ricerca di un nuovo socialismo.

50 Michael LOWY, citato

51 Ernesto Che GUEVARA, Il socialismo e l’uomo a Cuba, in Scritti scelti, citato.

52 Ivi

53 Ivi.

54 Ernesto Che GUEVARA, Intervista per l’Express, a cura di Jean Daniel.

55 Quattro articoli sul “Granma” (1967), in Contro il burocratismo una battaglia decisiva, Milano, Feltrinelli, 1968.

56 Ivi

57 Fernando MARTINEZ HEREDIA, Socialismo, cultura e rivoluzione, (1989), Milano, Punto rosso, 1994.

58 Ivi.

59 José Carlos MARIATEGUI, Aniversario y balance, in “Amauta”, settembre 1928.

60 La prima parziale edizione italiana delle Conversazioni al Ministero dell’Industria compare in Italia con il titolo Il piano e gli uomini, in “Il Manifesto”, n. 7, dicembre 1969.

61 Ivi.

62 Ernesto Che GUEVARA, Note per lo studio dell’ideologia della rivoluzione cubana, in Scritti scelti, citato

63 Mario SPINELLA, Un capitolo nella storia del marxismo, in AA. VV., Che Guevara, Roma, L’Unità, 1987.

64 Fernando MARTINEZ HEREDIA, Che, il socialismo e il comunismo, in AA. VV. Attualità del Che, Milano, Teti, 1997.