QUADERNO N. 37

INDICE

INTRODUZIONE

DOLCINO E GLI APOSTOLICI, LA STORIA IN BREVE

DOLCINO, CIVILTA’ MONTANARA

E AUTONOMIA BIOREGIONALE

LONGINO CATTANEO ed il MOVIMENTO

DOLCINIANO 700 ANNI DOPO

STRALCI DEI GIORNALI BIELLESI


APPENDICE

ARTICOLI DI PAOLO SECCO PUBBLICATI SU OUSITANIO VIVO

SU TEMA DELLE ERESIE NEL CUNEESE

Quaderni CIPEC

Attività CIPEC


INTRODUZIONE


Con questo numero, riprendiamo la regolare pubblicazione dei nostri quaderni.

La comunicazione, da parte dell’amministrazione provinciale, della decisione di interrompere la pubblicazione, iniziata nella lontana primavera 1995, ci ha portati a stampare, con le nostre forze, due quaderni che erano pronti e di particolare attualità: quello per gli ottant’anni di Gianni Alasia, celebrati (febbraio) nella sala Viglione del palazzo del Consiglio regionale e quello sull’inchiesta circa la Lega nord nel cuneese, uno dei fenomeni certamente più complessi dello scenario politico provinciale.

La scelta dell’amministrazione provinciale è poi rientrata e ci è stato comunicato che potremo usare ancora la Stamperia della provincia per la durata di questo mandato amministrativo (sino al 2009) per due pubblicazioni all’anno.

Ringraziamo senza formalità la Giunta provinciale, in specifico l’assessore alla cultura Valsania e il presedente Costa, così come abbiamo fatto, per il periodo 1995-2004 con il presidente Quaglia. Con loro, il personale della tipografia provinciale a cui abbiamo spesso portato (modesti) aumenti di carico di lavoro.

Ribadiamo la natura della nostra iniziativa: fornire documentazione, valutazioni, informazione su tanti aspetti della vita politico-sociale-culturale, concentrandoci in gran parte sul cuneese, senza mancare di toccare un quadro più ampio.

Chi volesse scorrere l’indice dei 36 numeri usciti ad oggi, potrebbe trovare la storia della locale sinistra politica nel dopoguerra, studi sui dati elettorali, testimonianze di tanti/e militanti (quante si sarebbero perdute se non le avessimo raccolte?), a dimostrazione che la storia è fatta di tante vicende individuali, ognuna significativa, che, in alcune circostanze, si sommano e producono processi collettivi.

La figura di Michele Risso, oggetto di alcuni quaderni (due convegni a Boves e la pubblicazione di alcuni suoi scritti) non è politico-partitica, ma assume una valenza politica di non poco conto sia per la grande importanza, non solo nazionale, del movimento di cui ha fatto parte, sia per la attualità dei temi toccati (la malattia mentale, la sofferenza, l’emarginazione…). Doveroso ricordarne vita ed opera, soprattutto in una realtà locale che lo ha sempre sottovalutato ed in un clima complessivo che sembra volutamente cancellare, o almeno ignorare, le esperienze più significative che abbiamo alle spalle (quanti/e studenti/esse di psicologia conoscono oggi l’impegno “epocale” di Franco Basaglia?).

Atipico il quaderno su Alberto Manna, consigliere provinciale di Forza Italia, prematuramente scomparso, di cui è parso giusto riportare gli interventi nell’assemblea locale.

Oltre al locale, alcuni temi nazionali: il socialismo italiano, atipico e non omologabile per decenni a quelli europei, i nodi della storia comunista, dal Pci a Rifondazione, le speranze e le contraddizioni della nuova sinistra.

Accanto ai quaderni l’attività del CIPEC, sempre autofinanziata, basata sull’impegno volontario.

Importante e da rilanciare e per i grandi nomi che abbiamo avuto l’onore di ospitare (per tutti/e: Masi, Geymonat, Bellofiore, Spinella, Girardi, Cortesi, Collotti Pischel, Revelli, Ferrero, Pirella, Santarelli, Moscato, Meandri, Barbero, La Valle, Carlevaris, Rieser, Dinucci, Perini, Novelli, Nesi, Agostinelli, Cremaschi) e per le tematiche toccate, quasi sempre “fuori dal coro”.

Affrontare “senza rete” e privi di dogmi il discorso della crisi del marxismo, il rapporto tra questo e nodi “emergenti” (ambiente, femminismo, pacifismo…), iniziare prima che fosse “di moda” a parlare di globalizzazione o di emergenza ambientale, presentare libri spesso scomodi, ragionare sulla psicanalisi senza sposare questa o quella scuola sono per noi motivo di vanto e di soddisfazione, così come i sei corsi sugli “anni della nostra storia” (dal 1945 al 1990) che occorrerà, un giorno o l’altro, continuare con il periodo più prossimo all’oggi.

I prossimi numeri di questa modesta e spartana pubblicazione intrecceranno le questioni sopra ricordate: introduzioni a molti convegni e iniziative pubbliche, memorie di militanti (quanti/e, purtroppo, non ci sono più?), temi più ampi, a cominciare da quello delle eresie, soprattutto quelle che hanno determinato ripercussioni più ampie rispetto alla sola questione “dottrinaria”. Valuteremo e cercheremo di studiare come la storiografia marxista (Engels, Kautsky, Bloch) abbia interpretato le grandi sollevazioni popolari suscitate da personaggi come Müntzer, Jan Hus tanto per citare i più conosciuti.

Attraverso le sfumature di Loewenberg, Esch , Lohmann, Hinrichs e altri arriveremo ad analizzare il nesso tra teologia e rivoluzione; nello specifico dove termina la componente teologica e inizia il “sovvertimento” dei rapporti sociali. Certamente si dovrà tenere conto dei limiti teologici degli studi marxisti e separare l’esaltazione delle azioni rivoluzionarie degli “eretici” dalla glorificazione della rivoluzione proletaria.

Di pari passo getteremo uno sguardo nella poco conosciuta e poco letta “storiografia illuministica” di queste grandi vicende. Un tentativo di analisi scientifica della esperienza müntzeriana fu fatto dal pastore protestante G. T. Strobel, un diretto testimone delle iniziali rivolte di stampo giacobino nella Norimberga della fine del ‘700 e successivamente il medico giacobino J. B. Erhard scrisse il suo “Sul diritto del popolo alla rivoluzione” .

Questo è il compito su cui sarebbe interessante potersi impegnare in futuro.

In questo numero, come detto, vogliamo dare il nostro modesto contributo al settimo centenario del martirio di fra Dolcino, Margherita da Trento, Longino Cattaneo e a tutti e tutte coloro che in questa vicenda videro un riscatto dal servaggio temporale del potere religioso allora dominante.

La figura di Fra Dolcino, giustamente rivendicata dal movimento socialista al suo sorgere, come ideale continuità fra la protesta religiosa- sociale del Medio Evo e le rivendicazioni sociali di un grande movimento emergente che si riprometteva di cambiare il mondo (quanto paghiamo oggi il fatto che questo non sia avvenuto o che, in tanti casi, si sia trasformato nel suo contrario!) è ancor oggi ricordata per la coerenza sino al martirio, ma richiama la necessità di trasformazione morale e sociale propria di tanti movimenti ereticali e pauperistici, convinti, come il primo socialismo che un nuovo mondo fosse alle porte.

Accanto agli scritti, nati in occasione di convegni dolciniani ed iniziative, alcune pagine di vecchi giornali socialisti che ripropongono il sapore e le tematiche di un mondo lontano eppure ancora così appassionante.

Quindi scritti dell’amico Paolo Secco, comparsi sul periodico “Ousitanio vivo” e tutti centrati sulla religiosità della nostra area geografica e su eresie locali. Pagine poco conosciute che parlano di tensioni, di una fede religiosa che impronta ogni attimo della vita ed ogni scelta, di aree dove diverse letture di Dio e dei Vangeli si sono intrecciate e confrontate, anche drammaticamente


S.D.


Dolcino e gli Apostolici

LA STORIA IN BREVE

( dal sito - http://fradolcino.interfree.it )



Anno 1300: anno del Giubileo e del perdono universale. Perdono per tutti i malfattori, ma non per Gherardino Segalello, che viene posto al rogo a Parma. La sua colpa? Aver dato vita al movimento dei "Fratelli Apostolici". Nel 1260 circa, l'umile Gherardino aveva chiesto di essere ammesso nel convento dei frati minori (francescani) di Parma. Permesso rifiutato. Allora vende la sua piccola casa ed il suo piccolo orto, getta i soldi così ricavati ai poveri (proprio come aveva fatto San Francesco), ed inizia una vita nuova basata su pochi, essenziali concetti: l'imitazione di Cristo ("seguire nudi il Cristo nudo"), il rifiuto di ogni possesso e accumulazione (quindi la povertà assoluta) e dunque le elemosine in una esistenza itinerante, nella convinzione che solo una tale realtà esistenziale potesse interpretare nel giusto modo il messaggio del Vangelo. E' il rifiuto, messo in pratica, della via adottata dalla chiesa di Roma (possesso, ricchezza, potere).

Cominciano ad affluire seguaci di Gherardino (il quale tuttavia rifiuterà sempre di essere considerato "capo", in omaggio ad una concezione integralmente comunitaria ed antigerarchica), e via via il consenso popolare cresce, tanto che le file degli Apostolici si ingrossano e moltissimi, uomini e donne, aderiscono a questo movimento. Gherardino, nella sua semplicità, è un grande comunicatore: coloro che aderiscono al movimento vengono privati dei vestiti e indossano una tunica bianca (l'unica cosa che possiedono), rifiutano persino, dell'elemosina, il pane superfluo che non può essere consumato immediatamente, egli stesso si presenta sulla pubblica piazza attaccato al seno di una donna come fosse un neonato lattante (a simboleggiare la rinascita dello spirito cristiano in una nuova éra di purezza totale), fa predicare in chiesa persino i bambini. Insomma, il contenuto del messaggio degli Apostolici (che si chiamano anche "minimi" per segnare la differenza con i "minori"- francescani i quali si erano integrati, in fondo tradendo l'insegnamento del loro fondatore Francesco d'Assisi, nei meccanismi potere-ricchezza della chiesa di Roma), e le forme della predicazione ottengono via via un enorme successo e adesione popolare, al punto che la gente abbandona i riti cattolici per affluire in massa alle "prediche" degli Apostolici. Gherardino invia anche diversi Apostolici a portare il proprio messaggio in terre lontane. Questo enorme successo (riconosciuto dalle più autorevoli fonti storiografiche cattoliche dell'epoca) non può più essere tollerato dalla chiesa romana: il mite Gherardino (pacifista integrale) viene imprigionato, alcuni apostolici vengono messi al rogo, e infine, nel 1300, Gherardino stesso viene arso vivo sulla pubblica piazza, nel nome del Signore. Ma il rogo di Gherardino Segalello, anziché spegnere il movimento apostolico, per uno di quegli strani "scherzi" della storia, segna invece l'inizio di una vicenda del tutto originale, e di enorme portata, nel medioevo italiano. Tra i molti che erano venuti in Emilia anche da lontano per partecipare al movimento apostolico, vi è Dolcino, nativo di Prato Sesia (Novara). Dopo la morte del fondatore, Dolcino di fatto assume il ruolo di leader del movimento, il cui nucleo "dirigente", sotto la pressione dell'Inquisizione, si sposta nel 1300 dall'Emilia al Trentino (vengono chiamati qui ed accolti da loro amici e compagni). La repressione tuttavia li segue anche lì, ove tre apostolici (due uomini e una donna) vengono posti al rogo. Nel 1303/1304 ecco allora Dolcino, con il gruppo degli Apostolici più fedeli (uomini, donne, vecchi e bambini), partire nel lungo viaggio che li porterà, attraverso le montagne lombarde (presso Chiavenna vi è tuttora un paese che si chiama Campodolcino) in Valsesia. La Valsesia è la terra d'origine di Dolcino, qui egli conta amici, ed è naturale che, per salvarsi, egli pensi a questa meta. Tra le donne che fanno parte di questo gruppo vi è la bellissima Margherita di Trento, di nobili origini, compagna di Dolcino.

La Valsesia era, però, da molto tempo in lotta aperta prima contro i grandi feudatari (conti di Biandrate), poi contro i comuni della pianura (Novara e Vercelli). Quando il gruppo degli Apostolici giunge a Gattinara e Serravalle, centri nella parte bassa della valle, e qui ricomincia la propria predicazione per una chiesa ed una società nuove, l'accoglienza popolare è entusiastica. I vescovi di Vercelli e Novara, in accordo con il papa, vedendo come l'avvento degli apostolici fa da catalizzatore per le istanze autonomiste delle popolazioni valsesiane, bandiscono allora una vera e propria crociata per debellarli. Viene reclutato un vero e proprio esercito professionale (anche i balestrieri genovesi, abilissimi nel tiro) per farla finita una volta per tutte. Gli Apostolici, questa volta, uniti ai valsesiani ribelli, decidono di difendersi. Nel 1304 inizia dunque una vera e propria guerra di guerriglia tra un esercito cristiano e cristiani che credono in una chiesa diversa ed alternativa. Si susseguono scontri e battaglie, nelle quali Dolcino dà anche prova di notevole intelligenza militare. I ribelli si spingono in alto nella valle e, sul monte chiamato Parete Calva, che è ideale per la difesa, si installano con l'appoggio dei montanari fondando una vera e propria "comune" eretica, in attesa di quello sbocco finale che Dolcino, uomo colto, teologo e filosofo della storia, ritiene imminente. I crociati assediano la Parete Calva, ove sono asserragliati i ribelli (alcune fonti parlano di 4000 persone, altre di 1.400), e si susseguono scontri sanguinosi. L'inverno, per i rivoltosi, è terribile. Essi vivono in condizioni ormai disperate. Finché, guidati da Margherita in un difficile passaggio tra metri di neve (ancora oggi quel luogo si chiama "Varco della Monaca"), riescono a devallare portandosi nel Biellese. Qui essi si fortificano sul Monte da allora chiamato Monte dei Ribelli, o Rubello. Ma i crociati si riorganizzano e procedono ad un nuovo assedio. I ribelli sono allo stremo, e alla fine l'ultimo assalto provoca una carneficina: circa 800 ribelli sono trucidati sul posto, mentre Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo (luogotenente di Dolcino) sono catturati vivi. Margherita e Longino verranno posti al rogo in Biella. Margherita rifiuterà di abiurare, respingerà le proposte di matrimonio di alcuni nobili locali, che l'avrebbero salvata dal rogo, e sceglierà di restare fedele al suo ideale e al suo compagno fino in fondo. Dolcino prima dovrà assistere al supplizio della sua donna e poi, a Vercelli, verrà condotto al rogo si di un carro. Durante il tragitto viene torturato con tenaglie ardenti, ma tutti i commentatori sono concordi nell'attribuirgli un coraggio straordinario: non si lamenta mai, ma solo si stringe nelle spalle quando gli viene amputato il naso e trae un sospiro quando viene evirato. Infine, nel 1307, anche per lui la "giustizia" di Dio significa il rogo. Tre anni di resistenza armata nel nome di Cristo si concludono tra quelle fiamme, ma altri dolciniani un po' da ogni parte continueranno ad esistere: si hanno notizie fino al 1374. Di più, Dolcino, Margherita e gli Apostolici diverranno simboli di libertà ed emancipazione fino ai giorni nostri, e la memoria popolare non li dimenticherà. Addirittura nel 1907 (sesto centenario del martirio) vi saranno celebrazioni di enorme rilievo con l'edificazione di un obelisco alto 12 metri proprio sui luoghi della loro ultima resistenza.


Tavo Burat


Dolcino, civiltà montanara e autonomia bioregionale

Atti del convegno Dolcino, Storia, Pensiero, Messaggio. Varallo Sesia 4 novembre 2006


Per "bioregione" si intende un luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, di specie animali e vegetali, di microclima, oltre che per la cultura umana che da tempo immemorabile si è sviluppata in armonia con tutto ciò. Le Valli alpine, come la Valle Sesia, costituiscono - o meglio, costituivano - bioregioni, e cioè insieme biologici tendenti all'autosufficienza ed all'autoproduttività, che si sono adattati alle condizioni dei loro habitat dove si realizza un "equilibrio circolare" tra tutti i fattori (produttori di energia, consumatori di energia, eliminatori dei rifiuti). Le popolazioni inserite nella bioregione formano comunità locali conferenti veste concreta a quello spirito di Gemeinchaft, cioè di "comunità di destino" entro cui si esprimono secoli di produzione culturale,1 in spazi per lo più liberi dai condizionamenti, affrancati dalla subalternità, caratterizzati da una produzione culturale autonoma e cioè non eterodiretta.

Orbene, a me sembra che per comprendere Dolcino, Margherita e la loro relazione con la Valle Sesia, sia necessario rapportarli alla bioregione teatro della epopea del 1305-1307. Quella Valle Sesia che, con il trattato di Gozzano del 1275, aveva conquistato con decenni di guerriglia contro i feudatari Biandrate prima e i centri metropolitani di Vercelli e Novara poi, una quasi indipendenza; "quasi" perché I 'Universitas valsesiana corrispondeva - utilizzando un termine moderno - ad un protettorato: infatti, per trattati e contese con potenze forestiere era pur sempre necessario l'assenso della città (Novara).

Come è stato puntualmente rilevato2, il rastrellamento per la caccia agli eretici, scatenato dai bravacci vescovili, con la conseguente sventura delle razzie operate da truppe assoldate che, com'era in uso, dovevano approvvigionarsi con le risorse locali, depredando i poveri montanari, invisi perché sospettati inoltre di proteggere gli eretici; le rappresaglie con l'abbattimento e l'incendio degli abituri rustici (quanto avverrà in quegli stessi luoghi 640 anni dopo, farà dire nihil sub soli novum!), non potevano che provocare una rabbiosa reazione da parte dei locali che, in quelle incursioni pre-potenti, vedevano a buon titolo una aperta violazione, e quindi una inaccettabile offesa, ai patti sottoscritti a Gozzano. Fondamentale è comprendere la struttura delle comunità alpine che caratterizzavano ancora le alti valli quando ospitarono gli Apostolici di Dolcino. Si trattava di vere comunità reali, non personali, caratterizzate dalla coesistenza fra la proprietà privata e quella collettiva. La prima era limitata alla abitazione, alle armi, agli utensili da lavoro, al bestiame ed a poca terra; la grande proprietà - i campi coltivabili, le brughiere e gli alpeggi per i pascoli, i boschi - era comunitaria, e il godimento delle sue singole componenti era stabilito da "regole" scaturite da assemblee di uomini liberi, vale a dire da coloro che portavano le armi e che al prezzo della vita difendevano quella proprietà.

In alcuni Cantoni della Svizzera primitiva si è conservata la Landsgemeinde, assemblea per gli affari comunali e cantonali che emana leggi e regolamenti secondo i dettami della democrazia diretta, e la partecipazione è un diritto-dovere riservato sino a non molti anni fa agli uomini atti alle armi. Le comunità longobarde diedero vigore a tali assemblee degli uomini liberi, gli arimanni. Queste comunità erano chiamate vicìnie (vicinanze nel Biellese) comunaglie nell' Appennino parmense, regole, appunto, nel Cadore e nel Veneto. L'etica che informava lo spirito comunitario sull'inalienabilità del suolo, era di voler conservare intatto il patrimonio collettivo; quest'etica venne minata e distrutta dall'introduzione del diritto bizantino cristianizzato, codificato dall'imperatore Giustiniano, che sarà la base del Diritto Romano, dal quale si attingerà a piene mani per dotare il nuovo Stato unitario italiano del 1861. La comunità rurale-alpina può quindi definirsi come un insieme di famiglie vicine che coltivano un dato territorio soggetto a regole di utilizzazione collettiva, ed è l'antenata della maggior parte degli odierni Comuni "politici": in Svizzera sussiste tuttora il "doppio comune": quello moderno, "politico", e quello detto, in Canton Ticino e nei Grigioni italiani, "patriziale" corrispondente alla nostra "vicìnia" competente per l'amministrazione dei beni comunitari e per gli "affari pauperili" (cioè, l'assistenza)3; sino al secolo XIX ci furono conflitti anche aspri di competenza tra consigli "politici" e "patriziali" (in cui gli elettori sono esclusivamente gli "autoctoni", e cioè gli appartenenti a famiglie riconosciute originarie del luogo). Queste assemblee discutevano la priorità delle coltivazioni, le rotazioni agronomiche, lo sfruttamento dei boschi e dei diritti comunitari sul legnatico, di caccia e di pesca, dibattevano sull'ammissione di forestieri: così avvenne per gli Apostolici di Dolcino, come sappiamo dell'invito di Milano Sola ad ospitarli a Campertogno; o sul loro rigetto, come avvenne invece per le truppe di repressione inviate in alta Valle a caccia degli "eretici". La sostituzione del diritto tribale, poi longobardo, con il Diritto Romano non fu certo "pacifica" e durò secoli. In molte alti valli, quegli "uomini liberi" poterono conservare con le armi i loro privilegi, cioè la loro autonomia, le loro "regole"; le vicìnie riuscirono a sopravvivere specialmente sulle montagne (divennero i cosiddetti "usi civici") e si conservarono sino all'inizio del secolo XIX; in Valsesia, ricordiamo la strenua battaglia autonomista dell' on. Aurelio Turcotti (Varallo 1808 Torino 1885) canonico, ma poi fieramente eretico che manifestò nei suoi scritti simpatia per Dolcino, al Parlamento subalpino nei banchi della "montagna", la sinistra in cui sedeva Angelo Brofferio.4

Per le alti valli di cui stiamo parlando, possiamo rilevare che la tradizione culturale formatasi durante l'età finale del bronzo e del ferro, sta tramontando soltanto con i nostri nonni o addirittura con i nostri padri (la prima Guerra Mondiale può essere considerata lo iato), come dimostra lo studio delle tradizioni popolari che hanno tramandato sino ad oggi antichissime ritualità.

Oltre alla vicìnia, esisteva un'altra organizzazione comunitaria, la cui importanza è sfuggita agli studiosi di Diritto italiano, in quanto nelle documentazioni comunali se ne trovano soltanto labili tracce molto frammentarie: si tratta di quella che era chiamata (in Piemonte, ma non solo) la Badia, o Abbadia: corporazione che in origine riuniva i giovani dal comune periodo di "spupillamento", gelosa custode delle ataviche libertà e della "cultura" orale alternativa: lo stesso nome di "Abbadia" appare come una sfida alla cultura ufficiale, "scritta", quella codificata nelle Abbazie del monachesimo medievale. Le "Badie" strenuamente difendevano i più remoti ordinamenti e costumi comunitari, tramandati nelle feste stagionali, quali i carnevali ed i maggi, e furono alla base del tuchinaggio. Le competenze stesse di queste corporazioni, ovvero l'organizzazione della vita comunitaria, delle antiche regole, delle feste, della difesa del territorio e dei suoi confini, divengono quindi eredità vivente e ragione storica delle insorgenze montanare e contadine del Piemonte. Infatti, tutte le insurrezioni e le rivolte contadine mirarono a ristabilire norme e valori infranti nel passato5. I "coscritti" ed i "comitati" per il Carnevale, i grandi pasti comunitari (fagiolate, polentate, risotti ecc.) sono "reliquie" delle Badie; molte di esse furono cattolicizzate e divennero confraternite (alcune tuttora armate, come quella di Barbania nel Canavese): i capi, gli abà, si trasformarono in "priori" o addirittura santificati: Euseo, strano santo valsesiano di cui si racconta che morì per la vergogna di essere stato costretto dai giovani ad indossare abiti carnevaleschi, fu con ogni probabilità un abà; il suo santuario è eretto su un masso erratico, all'imbocco della Valsesia, e colà vi è una grande coppella nella roccia, che raccoglie l'acqua piovana e che funge da terapeutica acquasantiera. E così, io sono convinto che Milano Sola, il "ricco contadino" di Campertogno (ma si poteva essere "ricchi contadini" nell'agricoltura di sopravvivenza che caratterizzava la località agli inizi del XIV secolo?), che "invitò" Dolcino ed i suoi in alta Valle, altri non era se non un abà, un autorevole capo dei giovani di Campertogno alle armi, che manifestò l'invito decretato, come era negli usi, dalla assemblea della vicìnia. La funzione delle Badie nelle insorgenze rustiche, apparirà macroscopicamente nel tuchinaggio, iniziato in Occitania, nel Massiccio Centrale, a seguito della predicazione di un francescano dissidente, Jean de la Rocquetaillade, cinquant'anni circa dopo il rogo di Dolcino e di Margherita; ripreso nel Biellese con la cattura del vescovo da parte dei giovani del Piazzo nel 1377, nel Canavese dal 1380 alla metà del XVI secolo.6

Come abbiamo più volte sostenuto, la comunità cristiana che Dolcino ed i suoi seguaci proponevano come preconitrice del "Regno" era del tutto speculare, omologa, a quella dei montanari specie dell'alta valle non soggetta alle influenze mercantili della pianura: infatti vi si riscontrano i medesimi valori fondamentali: solidarietà e fratellanza, comunione dei beni, rifiuto di ogni tipo di balzello (taglie, o decime che fossero), parità uomo-donna, nessun servo nessun padrone, ma Dio unico "Signore"; rifiuto del denaro (si pensi al fondatore del movimento Apostolico, predecessore di Dolcino, quel Gherardino Segalello, "libertario di Dio" che gettò via i denari, francescano anarchico, salito al rogo l'anno 1300 a Parma) poiché l'economia era fondata sul servizio comunitario e sul baratto... Dolcino testimoniava nel messaggio evangelico radicale la validità dell'ordinamento giuridico alpino, rivitalizzato dai Longobardi e minacciato dal Diritto Romano che montava dai centri urbani della pianura. La "crociata", invece, era la messa in opera di uno strumento oppressivo per l'affermazione dei princìpi antitetici: gerarchia; privilegi riconosciuti ai Signori feudali, laici o ecclesiastici che fossero; la donna considerata veicolo diabolico; la moneta sonante, anziché il libero scambio.

La sconfitta di Dolcino segnerà l'inizio della fine della civiltà alpina: alla luce del sole rimarrà l'ordinamento giuridico latino; ai "resistenti" resterà il buio dei boschi e della notte, dove troveranno rifugio i banditi; le donne "vestali" dell'antica cultura agreste diventeranno "streghe". Le fate giovani e belle saranno tramutate dalla cultura vincente in vecchie malefiche megere. La pratica del libero scambio in sfida alla legge sarà dei contrabbandieri.

Le alte valli alpine presenteranno nella loro decadenza economica, politica e sociale tutti i caratteri delle colonie, così come appaiono nel Terzo Mondo7: le materie prime prodotte (si pensi ai metalli, cominciando dall'oro, ma anche all'acqua, bene quanto mai prezioso), sono consumate e trasformate nelle metropoli; le popolazioni sono territorialmente divise con confini estranei alla loro realtà economica sociale (le etnie alpine sono le medesime nei due versanti: provenzali o occitani, francoprovenzali, walser, retoromanci o ladini, tirolesi, carinziani, sloveni, .. ); le valli costituiscono una grande riserva di mano d'opera (serve, e poi operai) e di buoni soldati; il sistema viario di comunicazione da orizzontale tra valle e valle, sostituito da quello a raggiera che parte dai centri metropolitani per facilitare la pianurizzazione delle attività economiche; il capitale locale sparito, è sostituito da quello dei metropolitani, che a poco a poco si impadroniscono della terra (turismo speculativo che espelle gli indigeni); la produzione agricola, artigianale, soppiantata da quella industriale metropolitana; gli indigeni considerati culturalmente alienati, minus habentes e gli idiomi che esprimono la loro cultura bistrattata, degradati da valore "lingua" a "minus-valore" dialetto, da estirpare e buttare (la rapina del minus-valore, dopo quella del plus-valore!).

Economia, cultura e lingua delle élites metropolitane si impongono sempre più nelle periferie: quanto è "alternativo", resistente alla globalizzazione, viene via via sospinto ai margini, o buttato a mare (come avvenuto nelle aree celtiche: in Scozia, Galles, Irlanda; Bretagna e per quella occitana, in Francia) dalla potenza economica metropolitana (di Londra o Parigi8); da noi la "resistenza" è compressa contro le montagne, nelle Valli, sempre più in alto. Laddove i popoli indigeni non concordano con i piani elaborati dalle élites, che mistificano il proprio interesse facendolo apparire "progresso" tout court, essi possono essere sempre rappresentati quali terroristi pericolosi, primitivi, gretti egoisti, ostacolo allo sviluppo9. E' l'inversione dell' etica: colto, aperto e positivo il "cittadino"; ignorante e rozzo, testardo e meritevole al più di "conversione" di "emancipazione", quando non di severa condanna, il montanaro, "villano" insomma: un "eretico", cui un tempo spettava l'abitello giallo o il rogo, ed oggi il disprezzo sociale del benpensantismo cittadino. E' l'antica favola del lupo a monte e del povero agnello a valle, colpevole di aver intorbidito l'acqua ...

Così Dolcino appare, emblematicamente, mitico eroe di una civiltà alpina che "resiste". Un personaggio maestoso e tragico, come i protagonisti dei romanzi del maggior scrittore svizzero di espressione francese, Charles Ferdinand Ramuz (1878-1947), proprio come Dolcino, in presa col destino o con le forze di una natura ostile, eroi simili a quelli della tragedia greca che guardano il volto misterioso del fato, cui non possono resistere; dovranno cedere, saranno sbalzati fuori dalla vita ma, lottando, fedeli alla loro passione, anche se soccombono, conservano una loro grande dignità. Penso soprattutto al protagonista di un suo importante romanzo, Farinet10 , montanaro reale, fuorilegge valdostano diventato nel Canton Vallese un mito al quale il paese di Saillon, teatro delle sue gesta sino alla morte nel 1880, quando la gendarmeria gli diede una caccia spietata (come fosse un orso od un lupo) gli ha dedicato la piazza principale, un monumento, un'affascinante passerella sul precipizio dove fu trovato cadavere, una sequela di vetrate lungo il sentiero che conduce ad una simbolica e minuscola vigna, luogo di meditazione per tutti coloro che cercano libertà, pace e giustizia. Purtroppo Do1cino non avrà l'entusiastico e corale riscatto tributato a Farinet, e mai i luoghi teatro della sua vicenda epica, Prato, Varallo, Campertogno, Rassa, Trivero ... potranno rivaleggiare con Saillon. Do1cino ha avuto il torto di sfidare non gli interessi metropolitani confederali (Farinet coniava moneta in concorrenza con la zecca di Berna!), ma di ribellarsi in Italia alla Chiesa Cattolica Romana: bollato come eretico, e sanguinario bandito, ha patito per sette secoli calunnie e diffamazioni spietate. Tuttavia, chi, come Ramuz, ha saputo interpretare la civiltà alpina, ha ben colto il valore della sua figura emblematica: lo scrittore friulano Carlo Sgorlon, in un romanzo racconta "la moderna e sempre valida favola delle prevaricazioni dell'uomo sulla natura; favola antica della dabbenaggine e del miraggio del progresso che, alleati contro l'equilibrio della creazione, scatenano il sangue ferito della terra. Perché uccidono il passato, scambiandolo per passatismo, in nome di un avvenire che è furto, sconsacrazione, improvvisata padronanza del fuoco degli déi". In questo libro si staglia la figura di Siro, un montanaro contrario alla strada e alla diga progettata ed in fase di realizzo: il romanzo è ispirato alla tragedia del Vajont anche se i toponimi sono mutati. A chi diceva a Siro; "sei tu fuori dal tempo. Dov'è il pericolo? Nei lavori della strada?" replicava: "ma certo. Cominciano sempre con una strada. Se lasciate che la strada si faccia, poi sarà tardi per ogni cosa". Lui conosceva le loro tecniche, le aveva viste applicate in molte altre valli. Dopo la strada veniva gente che avrebbe messo le mani ingorde su ogni cosa. Avrebbe sventrato i boschi per farne da sci, costruito ogni possibile diavoleria, seggiovie, impianti di risalita, funivie per salire in cima alla montagna senza muovere un solo passo; avrebbe fabbricato alberghi, rovinato i nevai del massiccio, e le valli e le montagne sarebbero state percorse da una ragnatela di fili di acciaio e di piloni di cemento. Avrebbero deviato le acque... "Le acque? Cosa c'entrano le acque?" Non lo so. Dico per dire. So soltanto che rovinano tutto. "Siro, ragiona. La gente della valle aspetta da decenni che la strada sia fatta". Ma lui non voleva ragionare. Era sconvolto dalla sua passione, e continuava a dire che bisognava fare una lega di tutta la gente per bloccare il progetto che ci minacciava, correre in tutti i paesi a soffiare con ogni forza dentro l'antico corno di bue, per gettare l'allarme. Lo guardai negli occhi e ebbi l'impressione che non mi vedesse nemmeno. Mi sembra una sorta di eretico d'altri tempi. Un fra Dolcino uscito dai secoli remoti ed entrato chissà come nel nostro tempo di motori e di macchine. Non si era accorto che quell'epoca era finita, che il frate di Novara e la sua donna dai capelli rossi erano stati bruciati vivi, e la sua gente massacrata e dispersa. Si era perduto un grande sogno, quello delle antiche comunità montanare. Ma adesso i tempi erano cambiati, e sopravviveva soltanto un suo pallido fantasma nel fatto che la gente affamata andava a far legna nell'antico bosco demaniale. Tutto il resto era cambiato. Oggi i grandi feudatari esistevano sotto forma di banche e società finanziarie, le quali potevano anche riuscire in quello che era stato impossibile ai vescovi medievali. L'avrebbero fatto anche qui, e anzi avevano già cominciato a farlo, ma opporsi era una illusione mitica e fuori dal tempo.11

Ramuz e Sgorlon ci spiegano così, sia pure molto indirettamente, perché il movimento contro il Treno Alta Velocità -TAV- in Valle Susa abbia emblematicamente "recuperato" fra Dolcino: è la seconda volta, dopo gli anni di fine - principio secolo, quando il movimento operaio Valsesiano e Biellese onorò il "precursore", che un movimento popolare riscopre Dolcino e lo rivendica. In Valle Susa, e in internet circola una significante lettera, firmata "Dolcino e Margherita, da nessun luogo" (utopia!) che è un inno alla libertà della montagna, una strenua difesa di quella "bioregione" che una colossale strada ferrata vorrebbe ancor più sconvolgere12. Una valle già percorsa da autostrade, superstrade e ferrovia, sconquassata da una "grande opera" che prevede montagne scavate per quindici anni, con un milione di metri cubi di materiale pericoloso da trasportare da qualche parte; cinquecento camion in transito giorno e notte nella valle per trasportare i detriti scavati; tonnellate di polvere circolante nell'aria: le verifiche secondo le quali non ci sarebbe amianto nei terreni si sono rivelate inattendibili, il movimento "No Tav" ne ha portato alla luce le lacune dal punto di vista scientifico e la Procura di Torino ha aperto un' inchiesta. Si estende la desolazione di panorami cementificati, la distruzione di prati, l'ombra di viadotti, il grigio delle decine di piloni di cemento, antenne e tralicci aumentati in modo esponenziale, inoltre le falde deviate e prosciugate, le acque inquinate. Ma l'opera che costa miliardi e miliardi di curo non solo è dannosa, ma inutile, perché il rapporto tra trasporto merci e Pil cresce fino a quando lo sviluppo economico di un Paese non raggiunge una certa soglia, dopo la quale si stabilizza e decresce: i dati europei Eurostat evidenziano come in Europa il rapporto tra tonnellate per km di merci (indicatore di qualità di trasporto delle merci) e PiI, tra il 1997 e il 2002, è rimasto invariato; per l'Italia è stazionario13. II movimento che ha riconosciuto in Dolcino un emblema, antepone la tutela delle bioregione e della salute agli interessi di coloro che Sgorlon chiamava i "nuovi feudatari", cioè poche ma potenti lobby economiche, spesso trasversali negli schieramenti politici.

In realtà, si confonde il "progresso", che è liberazione dal bisogno e dal servaggio, con lo "sviluppo" che non deve essere infinito e che è destinato a schiantarsi a grande velocità contro la barriera del limite ecologico. Si sostiene che la TAV è indispensabile, altrimenti l'Italia non si modernizza, ma senza fondarsi su dati e fatti nazionali. E Luciano Gallino14 si chiede se non siano proprio gli abitanti della Val Susa a fare, invece, il vero interesse nazionale, e che stiano spronandoci a pensare se è davvero conveniente trasformare l'Italia nella piattaforma logistica d'Europa, e se la perseveranza di realizzare la TAV senza valide ragioni sia conseguenza dell'incapacità di esplorare in modo corretto altre opportunità di cui disponiamo.

Forse questi Dolcino e Margherita strenui difensori della bioregione alpina, e cioè di una regione-comunità in osmosi con il territorio, sono trascendentali, più attinenti ai personaggi mitici, tramandatici dalla tradizione popolare, che a quelli storici. Da Robin Hood a Farinet, la leggenda sembra consegnarci, meglio dei documenti, una realtà più significante, certamente più coinvolgente e affascinante. Andrè Malraux15 lasciò scritto: “solo il leggendario è vero” Prima di lui, Beaudelaire aveva esclamato: “Sei sicuro che questa leggenda sia proprio vera? Ma che m’importa, se mi ha aiutato a vivere!”. E Alessandro Dumas va ancora oltre: “Si può violare la storia, purché ci faccia un bel figlio!”.

Dolcino e Margherita, furono torturati atrocemente ed arsi il 1° giugno 1307. Malgrado sei secoli di demonizzazione, il movimento operaio li riconobbe precursori della lotta per il riscatto degli oppressi, ed a Dolcino innalzò sul monte Massaro un obelisco alto 11 metri, abbattuto vent' anni dopo, nel 1927 , dal regime fascista. Ancora una volta si credeva di averla "fatta finita" con siffatti simboli scomodi. Il bisettimanale della curia scrisse allora che "quel povero cumulo di pietre aveva cessato di essere, come si augurò e si credette dai promotori, un faro ed un punto di riferimento " Ma non fu cosi: nel 1974, l'anno in cui il pensiero laico trionfò respingendo con un referendum la proposta di abrogare la legge che introduceva il divorzio nell'ordinamento giuridico italiano, sui ruderi di quell'obelisco sorse un cippo. Oggi Dolcino e Margherita fanno sentire le loro voce "altra", come eroi dell'autonomia e della salvaguardia delle bioregione. Per dirla con Giuseppe Giusti, "dopo morti sono più vivi di prima".







LONGINO CATTANEO ed il MOVIMENTO DOLCINIANO 700 ANNI DOPO

A cura di Tavo Burat


Alla morte di Francesco d’Assisi (1226) nell’Ordine da lui fondato si delineano due correnti, quella dei Conventuali che accettano le donazioni e la vita nel convento, e quella degli Spirituali che si ispirano alle profezie di Gioachino da Fiore ( 1202), e vedono in Francesco l’inizio della nuova era dello Spirito, e vivono nomadi in povertà. In linea diretta dal francescanesimo discendono gli apostolici, un “ordine” di militanti analoghi ai perfetti del Catarismo, con una vasta rete di simpatizzanti e di collaboratori, così da poter essere modernamente definito movimento fondati nel 1260 da Gherardino Segalello da Ozzano Taro (Parma), che possiamo definire libertario di Dio”. Con i suoi sermoni e la sua vita, e le sue recite da mistero buffo”, egli testimonia l’apostolicità proponendo il ritorno alla prassi cristiana primitiva, svincolata da ricchezza e da potere, egualitaria, e la comunione dei beni secondo gli Atti degli Apostoli. Per questo, per far ridere con i suoi monologhi e quindi per irridere al potere feudale, fra Gherardino è arso al rogo il 18 Luglio 1300, sulla riva del torrente Parma, l’anno del primo Giubileo, festa del perdono, indetta da Papa Bonifacio VIII. Tra coloro che assistono al rogo di frà Gherardo è anche un giovane discepolo: Dolcino, nativo di Trontano in val d’Ossola secondo alcune fonti o, secondo altre e dalle ricerche più recenti, a Prato Sesia; probabilmente dalla famiglie Preti o De Pretis, ghibellini imparentati con i Tornelli,parimenti ghibellini valsesiani.

Un mese dopo il rogo di Gherardo, Dolcino, nell’agosto 1300, scrive la sua prima lettera

ad fideles”. Questa lettera costituisce il primo manifesto ufficiale del movimento e la presentazione di Dolcino quale guida profetica ed illuminata. Egli rivela qui una impostazione gioachimita, non priva però di apporti originali. Il discorso, da penitenziale evangelico, qual era quello del Segalello ( poenitentiàgite era il mantra del fondatore degli Apostolici, nel senso di spronare a costruire un nuovo mondo, della carità e del pentimento) diviene teologico; una vera “enciclica” che poggia, intelligentemente, oltre che su basi dottrinali, su di un diffuso stato d’animo e sulla partecipazione agli avvenimenti politici.

La Chiesa romana, irrimediabilmente corrotta, non è più riformabile, crollerà; la sua gerarchia sarà travolta, ed il nuovo imperatore, un “novello Federico” sarà lo strumento dell’ira divina.

La Chiesa abbandonerà ogni bene terreno, sceglierà definitivamente la povertà ed inizierà così l’era dello Spirito, che durerà sino alla fine dei giorni.

Questa lettera ha immediatamente un grande successo. Poco dopo l’agosto 1300, Dolcino, predica e presiede incontri clandestini nel Trentino Cìmego, dove si era rifugiato e dove era attivo un gruppo di apostolici guidato dal fabbro frà Alberto; ma ritorna anche al contado bolognese.

Da Cìmego, nel dicembre 1303, scrive la sua seconda lettera-enciclica con la quale rassicura i fedeli circa la vitalità del movimento, che da libertario si trasforma in quello che oggi diremmo un “partito”, con un organigramma ed un’organizzazione capillare nelle campagne e nelle città.

Dolcino ufficializza i responsabili : a capo di tutti gli appartenenti alla congregazione apostolica è egli stesso, Dolcino novarese; quindi, fra tutti dilettissima, la sorella Margherita e frate Longino da Bergamo; seguono poi tra i più autorevoli frà Federico da Novara ( altrove viene detto Grampa”, che è una frazione di Mollia, in alta Val Sesia), frà Alberto trentino e frà Valderico da Brescia(altrove precisato da Toscolano).(1) Un altro passo fondamentale della fonte sulla vicenda dolciniana (2) ci precisa che trattasi di Longino da Bergamo della famiglia dei Cattanei da Fedo o da Sacco : dopo Dolcino e Margherita è l’apostolico di maggior rilievo,designato immediatamente dopo i due capi : quindi il massimo discepolo, e luogotenente e braccio destro dell’eresiarca. Dai processi bolognesi, sappiamo che tra diversi Apostolici era d’uso far parlare il più autorevole: il pur celebre Zaccaria di S. Agata ( Apostolico emiliano sin dal 1290, inquisito nel 1299 poi condannato il 17 dicembre 1303 e arso sul rogo il medesimo giorno in Campo fori) dava la precedenza a Dolcino ed a Longino, ascoltandoli.

Nel 1301-1302 è testimoniata la presenza da Longino da Bergamo nel contado bolognese. Successivamente lo si troverà nel Trentino ed in Piemonte sempre a fianco di Dolcino, di cui è il principale discepolo, luogotenente e braccio destro, seguendolo sino all’ultimo giorno(3).

Purtroppo, oltre alle fonti citate ( la Historia dell’Anonimo sincrono ed i Processi), non si hanno altre notizie su frà Longino; Arnaldo Segarizzi che è stato il primo più attendibile e profondo studioso delle fonti apostoliche, annota che di Longino non è dato trovare alcuna notizia, come gentilmente (lo) informa il chiarissimo prof. Mazzi (4)

Raniero Orioli è incline a ritenere l’esistenza di un possibile legame tra la famiglia capitanale bergamasca di Longino con la fazione ghibellina dei Suardi, che in certi anni è la vera padrona della città e che, per tutto il ‘300, è una delle quattro famiglie ( con i Borghi, i Rivola ed i Sangallo) che si contendono se non il supremo potere, almeno il primato.

Sul finire dell’estate del 1304, i Suardi ed i ghibellini, cacciati da Bergamo, si erano rifugiati nel castello di Martinengo dove si reca l’inquisitore di Pavia,Lanfranco da Bergamo, ( al quale probabilmente si deve la condanna del 1300 del mite Gherardino Segalello), per un infruttuoso tentativo di mediazione, e dove ha notizia, nel febbraio del 1305, della presenza di Apostolici nel castrum , a quel tempo assediato dalle forze guelfe; recatosi a Romano, dove intenta un processo contro apostolos malos torna altre due volte a Martinengo, sempre per chiarire la faccenda delle presenze apostoliche, e riesce persino a trovare alcune literas prefecti apostolorum (5)

Nel 1302 sul Garda è stanziato il direttivo apostolico; ed è allora che Matteo Visconti, cacciato da Milano e perso il dominio su Novara,in fuga da Oleggio,si dirige verso i laghi di Garda e d’Iseo.

Sul finire del Maggio 1304, Matteo ed i ghibellini comaschi fuoriusciti cercano di riprendere Como. A Mendrisio, sulla strada di Lugano lungo la quale erano scese direttamente a Como le armate viscontee, troviamo l’apostolico valsesiano Federico Grampa ed altri dolciniani.

Scatenatesi le repressioni nel Trentino, dove a Cìmego vengono mandati al rogo tre apostolici (un uomo e due donne, una delle quali è la moglie di frà Alberto) i Dolciniani abbandonano la valle del Chiese: da Bagolino ( dove recentemente è stata scoperta la presenza, all’epoca, di varie famiglie aderenti alla setta) e dal passo di Crocedomini entrano in Val Camonica e poi nel Bergamasco; tutto fa pensare che siano transitati da Martinengo e che, colà, sia stata decisa la salita in Val Sesia. Probabilmente fu proprio la presenza del bergamasco Longino a facilitare il passaggio da Martinengo e l’incontro con i ghibellini ivi asserragliati.

Le connessioni e le compresenze tra gli Apostolici e i Visconti assieme sul Garda nel 1302, a Como nel 1303 a Martinengo nel 1305 – fanno supporre a Orioli (6) una connivenza tra gli eretici ed i ghibellini.

E’ presumibile che il partito ghibellino, e particolarmente i Visconti, nel tentativo di riconquistare Milano, dove il potere era passato ai guelfi (i Torriani), come nelle città satelliti di Vercelli, di Novara e di Bergamo, intendesse strumentalizzare il movimento apostolico per indebolire gli avversari ( secondo l’assioma per cui i nemici dei miei nemici sono miei amici): la storia insegna come gli estromessi dal potere facciano fronte comune contro i nuovi detentori, e come a tal fine sia usato il malcontento, l’ira popolare; basti pensare alla Vandea, al crollo delle repubbliche giacobine in Italia, al brigantaggio meridionale dopo la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861.

Resta comunque il fatto che gli Apostolici provenienti dal Trentino non avevano alcuna velleità guerrigliera, altrimenti l’avrebbero già manifestata resistendo alle persecuzioni nelle loro valli, dove si sarebbero potuti meglio celare, giovandosi della conoscenza dei luoghi e degli appoggi di familiari ed amici.

Comunque, Raniero Orioli che, come abbiamo visto, suppone connessioni tra Visconti e Dolciniani, i quali non sarebbero soltanto “eretici ribelli contro la Chiesa di Roma, ma anche ghibellini contro la coalizione guelfa di Lombardia”, ribadisce come “ la matrice causale e determinante di tutta l’azione dolciniana non fosse – non potesse essere – l’istanza o l’adesione politica, bensì la fede e la tensione religiosa (7).

Dalla Bergamasca Dolcino con i suoi passa nel Varesotto, e da qui a Gattinara alle porte della Valsesia: un “ borgo franco” di recentissima formazione, sorto per volontà del vescovo di Vercelli al fine di controllare l’importante nodo stradale ( vi si incrociano le strade per la Valsesia, il lago Maggiore e Novara, Vercelli ed il Biellese).

Per incentivare l’insediamento della popolazione, Gattinara ha avuto particolari esenzioni fiscali: ma ciò diviene presto motivo di conflitto con i feudatari Arborio e con il Vescovo.

Dolcino giunge pertanto quando colà c’è un clima di tensione, ed è quindi ben accolto in quanto notoriamente inviso all’autorità religiosa. Così è pure ricevuto benevolmente nel borgo immediatamente superiore, Serravalle Sesia, riuscendo anche ad accattivarsi la simpatia del parroco locale. Si aggiunga che le forze della lega guelfa, concentrate a Pavia ed a Piacenza, hanno sguarnito momentaneamente di presidi militari la zona della media e bassa Sesia.

Malgrado i probabili incontri avuti con i ghibellini guidati da Matteo Visconti e le “aderenze” vicine e lontane, le fonti ci dicono, comunque, che Dolcino giunse nel 1305 a Gattinara “da lontani paesi con alcuni seguaci”, e che subito “iniziò a predicare di nascosto e subdolamente nei territori di Serravalle e dintorni, e riuscì a sedurre con i suoi perversi insegnamenti numerosi uomini e donne: atteggiamenti, questi, non certo di una masnada di guerriglieri.

Dopo circa quattro mesi, premuto dagli armati al soldo del Vescovo Ranieri Avogadro di Vercelli, Dolcino si rifugia con i suoi nell’alta valle, a Campertogno, invitatovi da un contadino, Milano Sola, probabilmente un capo delle corporazioni giovanili, le “badie”, che saranno poi protagoniste, nella seconda metà del medesimo XIV secolo, delle insorgenze antifeudali (il tuchinaggio”, occitano e piemontese).

Si è preteso che contro Dolcino si fossero costituite delle “leghe” valsesiane, ma gli statuti relativi sono oggi concordemente ritenuti falsi grossolani. Invece i Valsesiani, già da secoli ribelli ai feudatari ( i Biandrate) ed ai grossi Comuni della pianura, Vercelli e Novara, che si contendevano il dominio della Valle, e usi alle armi per la pratica della caccia, prendono le armi contro i rastrellamenti compiuti dai bravacci vescovili che compiono razzie in Valle, ritenendo, a buon titolo, i montanari solidali con gli “eretici” perseguitati.

I Valsesiani sono soprattutto gelosi della loro autonomia, ottenuta nel 1275 con il trattato di Gozzano, dai Comuni della pianura, Vercelli e Novara, e pertanto sono insofferenti ad ogni prepotente intrusione nella loro comunità alpina.

Dopo alcuni mesi, non sentendosi sicuri a causa dei rastrellamenti, Dolcino, Margherita, Longino ed i loro discepoli, e molti altri di Campertogno, Quare e Rassa (8) si trasferiscono sulla cima delle Balme e poi, verso la fine dell’estate 1305, sulla Parete Calva, luogo inespugnabile nella collaterale valle di Rassa.

Al riparo dell’armata vescovile, i ribelli valsesiani guidati da Dolcino, Margherita e Longino danno vita ad una guerriglia con azioni improvvise, calando contro i nemici accampati in valle. Nei villaggi danneggiano le chiese, ritenute tempio dei farisei nemici del Vangelo, collaborazionisti degli invasori.; e le case dei magistrati del Vescovo-Conte. Uno dei sequestrati è il podestà di Varallo, Brusati, nobile guelfo novarese.

I Vescovi di Vercelli e di Novara ingaggiano un corpo di balestrieri genovesi, per contrastare i ribelli, abilissimi nel tiro con l’arco. Costoro, costretti a rompere l’accerchiamento, non hanno che una via di fuga laterale. Lasciati i compagni più deboli, i superstiti, ridotti ormai a poche centinaia, nella notte tra il 9 ed il 10 Marzo 1306 abbandonano la Parete Calva ed iniziano una lunga marcia per “grandi monti, nevi altissime, vie inesplorate e luoghi impervi” come testualmente scrive l’anonimo Sincrono, principale fonte, cattolica, di quegli avvenimenti, per giungere nel Biellese orientale sul monte da allora chiamato “Rebelle o Rubelloe cioè dei Ribelli, che essi fortificano.

Non avendo viveri di scorta, i ribelli scendono su Trivero per procurarseli dalle masserizie degli assedianti (il paese era stato evacuato dai locali per togliere ogni appoggio ai resistenti).

Il Vescovo di Vercelli, preoccupato dalla resistenza e dalle sconfitte che avevano visto fallire i rastrellamenti in Valsesia, e che ora subisce dalle sortite dei Dolciniani, ottiene che il nuovo Pontefice, Clemente V, da Avignone bandisca ufficialmente una crociata contro i demoniaci eretici. Per Dolcino ed i suoi nel dicembre 1306 inizia l’ultimo inverno e la gran fame.

Dante dà il quadro puntuale di Dolcino assediato sul Monte Ribello dalle milizie vercellesi e novaresi, facendo dire a Maometto (canto XXVIII, vv 54-60 dell’Inferno):


Or dì a frà Dolcin,dunque che s’armi

tu che forse vedrai lo sole in breve,

s’egli non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivande, che stretta di neve

non rechi la vittoria al Novarese,

ch’altrimenti acquistar non sarìa lieve”


Quasi tutti e commentatori danteschi vedono qui una repressa simpatia per Dolcino: infatti Dante vedeva nella Chiesa di Roma la prostituta dell’Apocalisse, da non confondersi con la vera Chiesa di Cristo, che è il suo opposto. E’ poi indicativo che l’Apostolica sia l’unica eresia citata dall’Alighieri nella sua Commedia

Finalmente, il giovedì santo (giorno della cena del Signore) 1307, esattamente un anno dopo l’insediamento sul monte Ribello, i crociati di Vercelli e Novara sferrano l’attacco decisivo. La battaglia infuria sulla piana di Stavello: ci vuole un’intera giornata perché molti crociati riescano a travolgere pochi superstiti, uomini e donne denutriti, ma che lottano nella convinzione che Dio li aiuterà.

E’ un macello: gran parte di quei disgraziati è massacrata e gettata in un rio da allora chiamato Carnasco, le cui acque erano diventate rosse come il sangue e rimarranno imbevibili per anni.

Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo sono catturati vivi, con loro altri 150 prigionieri, come riferisce l’Anonimo sincrono.

Dopo la cattura, Dolcino, Margherita e Longino in catene sono portati nelle prigioni di Biella Piazzo e poi a Vercelli, ove sono orrendamente torturati, come minuziosamente ci narrano le fonti cattoliche (9).

Ogni mezzo fu intrapreso, invano, affinchè abiurino la loro fede. Margherita descritta come “bellissima rifiuta le proposte di matrimonio dei feudatari, che così l’avrebbero salvata dal rogo.

I corpi sanguinanti e sfigurati, ma ancora vivi, furono posti al rogo: Dolcino a Vercelli alla confluenza del torrente Cervo con la Sesia (punto difficile da identificare oggi, poiché l’orografia è mutata), Longino Cattaneo sicuramente a Biella, nell’isolotto su cui oggi poggia il ponte detto della Maddalena sul torrente Cervo; Margherita, secondo la tradizione popolare, in quello stesso luogo. Tutti il 1° Giugno 1307.


Per comprendere l’osmosi tra la popolazione locale valsesiana ed i Dolciniani, è fondamentale evidenziare la struttura delle comunità alpine che caratterizzavano ancora le alte valli agli inizi del XIV secolo. Si trattava di comunità reali, non personali, contrassegnate dalla coesistenza tra la proprietà privata e quella collettiva. La prima era limitata all’abitazione, alle armi, agli utensili del lavoro, al bestiame ed a poca terra; la grande proprietà – i campi coltivabili, le brughiere e gli alpeggi per i pascoli, i boschi – era comunitaria, e il godimento delle sue singole componenti era stabilito da “regole scaturite da assemblee di uomini liberi, vale a dire da coloro che portavano le armi e che al prezzo della vita difendevano quella proprietà.


In alcuni Cantoni della Svizzera primitiva si è conservata tuttora la Landsgemeinde, assemblea per gli affari comunali e cantonali che emana leggi e regolamenti secondo i dettami della democrazia diretta, dove la partecipazione è un diritto/dovere riservato, sino a non molti anni fa agli uomini atti alle armi.

L’ordinamento longobardo diede vigore a tali assemblee degli uomini liberi, gli arimanni.

Queste comunità erano chiamate vicinie o vicinanze in Piemonte e Lombardia; comunaglie nell’Appennino parmense; regole, appunto, nel Cadore e nel Veneto.

L’etica che informava lo spirito comunitario, fondato sull’inalienabilità del suolo, era quella di conservare intatto il patrimonio collettivo; quest’etica venne minata e distrutta dall’introduzione del diritto bizantino cristianizzato dall’imperatore Giustiniano, che sarà la base del Diritto Romano, dal quale attingerà a piene mani il nuovo Stato Unitario del 1861.

La comunità rurale alpina può quindi definirsi come un insieme di famiglie vicine che coltivano un dato territorio soggetto a regole di utilizzazione collettiva, ed è l’antenata della maggior parte degli odierni Comuni “politici.

In Svizzera esiste tuttora il “doppio Comune“: quello moderno, “politico”, e quello detto, in Canton Ticino e nei Grigioni italiani, “patrizialecorrispondente alla nostra “vicìnia, competente per l’amministrazione dei beni comunitari e per gli “affari pauperili ( cioè l’assistenza).

Sino al secolo XIX ci furono conflitti elvetici anche aspri di competenza tra consigli “politici e “patriziali”. Queste assemblee discutevano sullo sfruttamento economico del terreno (coltivazioni, rotazioni agronomiche, pascoli, boschi, caccia e pesca) ed anche sull’ammissione od il rigetto dei forestieri (tuttora in Svizzera la cittadinanza si acquisisce a livello comunale, e non cantonale o federale): come avvenne, appunto, in alta Valsesia, dove Dolcino, Margherita e Longino furono accolti, mentre invece le truppe di repressione in rastrellamento degli eretici furono respinte con forza.

La sostituzione del Diritto tribale, poi longobardo, con il Diritto Romano non fu certo “pacifica e la resistenza durò secoli. In molte valli gli uomini liberi poterono conservare con le armi i loro “privilegi”, cioè la loro autonomia, le loro “regole”. Le “vicìnieriuscirono a sopravvivere sulle montagne, divenendo i cosiddetti “usi civicie si conservarono sino all’inizio del XIX secolo. Per le alte valli di cui stiamo parlando, possiamo rilevare che la tradizione culturale formatasi durante l’Età finale del bronzo e del ferro, sta tramontando soltanto con i nostri nonni, o addirittura con i nostri padri ( la prima Guerra mondiale può essere considerata lo jato ), come dimostra lo studio delle tradizioni popolari, che hanno tramandato sino ad oggi antichissime ritualità.

Oltre alla “vicìnia”, esiste un’altra organizzazione comunitaria, la cui importanza è sfuggita agli studiosi del Diritto italiano, in quanto nelle documentazioni comunali se ne trovano soltanto labili tracce frammentarie: si tratta di quelle che era chiamata (in Piemonte, ma non solo) la “Badìa “ o “Abbadìa”, corporazione che, in origine, riuniva i giovani dal comune periodo di “spupillamento”, gelosa custode delle ataviche libertà e della “culturaorale alternativa; lo stesso nome di “Abbadìaappare come una sfida alla cultura ufficiale “scritta”, quella codificata nelle Abbazie del monachesimo medioevale.

Le competenze stesse di queste corporazioni, ovvero l’organizzazione della vita comunitaria, delle antiche regole, delle feste (quali i carnevali ed i maggi), della difesa del territorio e dei suoi confini, divengono quindi eredità vivente e ragione storica delle insorgenze montanare e contadine, da quelle del “tuchinaggioantifeudale, alle rivolte antifrancesi a cavallo tra XVIII e XIX secolo: tutte mirate a ristabilire norme e valori infranti del passato (10).

Molte “badìefurono cattolicizzate e divennero confraternite; i capi, gli “ abàsi trasformarono in “priori o addirittura santificati ( come Sant’Euseo di Serravalle Sesia). Così, io sono convinto che Milano Sola, definito dalle fonti “ricco contadino di Campertogno, che invita Dolcino in alta Valle, altri non è se non un “ abà”, autorevole capo dei giovani della sua comunità, poiché non si poteva essere “ricchi “ nell’agricoltura di sopravvivenza di una comunità alpina agli inizi del XIV secolo; l’invito inoltre non poteva essere “privato e prescindere da una volontà collettiva, appunto da una delibera della “vicìnia, di dare ospitalità a decine di perseguitati.

La comunità cristiana che Dolcino e Longino proponevano come precorritrice del “Regno”, è del tutto speculare, omologa a quella dei montanari, dove si riscontrano i medesimi valori fondamentali: solidarietà e fratellanza, comunione dei beni, rifiuto di ogni tipo di balzello (taglie o decime che fossero), parità uomo/donna, nessun servo e nessun padrone, ma Dio unico “Signore”, rifiuto del denaro (si pensi al Segalello, fondatore del movimento apostolico che “gettò via i denari”, poichè l’economia era fondata sul servizio comunitario e sul baratto…….)

Dolcino, Longino e Margherita testimoniano, nel loro messaggio evangelico radicale, la validità dell’ordinamento giuridico alpino, rivitalizzato dai Longobardi e minacciato dal Diritto Romano che sale dai centri urbani della pianura.

La “crociata”, invece, è la messa in opera di uno strumento oppressivo per l’affermazione di principi antitetici: gerarchia, privilegi riconosciuti ai signori feudali, laici o ecclesiastici che siano; la donna considerata veicolo diabolico; la moneta sonante, anziché il servizio solidale ed il libero scambio.

La sconfitta di Dolcino, Margherita e Longino segnerà l’inizio della fine della civiltà alpina: alla luce del sole, rimarrà l’ordinamento giuridico latino; ai “resistentiil buio dei boschi e della notte, dove troveranno rifugio i banditi; le donne “vestalidell’antica cultura agreste diventeranno “streghe: le fate giovani e belle saranno tramutate dalla cultura vincente in vecchie malefiche megere. La pratica del libero scambio, in sfida alla legge, sarà dei contrabbandieri.

Le alte valli alpine presenteranno, nella loro decadenza economica, politica e sociale, tutti i caratteri delle colonie, così come avviene nel terzo mondo (11): le materie prime prodotte ( si pensi ai metalli, cominciando dall’oro, ma anche all’acqua, bene quanto mai prezioso), sono consumate o trasformate nelle metropoli; le popolazioni sono territorialmente divise con confini estranei alla loro realtà economico-sociale; le Valli costituiscono una grande riserva di mano d’opera (prima serve, poi operai ) e di buoni soldati; il sistema viario di comunicazione da orizzontale, tra valle e valle, sostituito da quello a raggiera che diparte dal centro metropolitano per facilitare la pianurizzazione delle attività economiche; il capitale sociale sparito, sostituito da quello dei metropolitani che si impadroniscono della terra ( turismo speculativo che espelle gli indigeni); la produzione agricola e artigianale soppiantata da quella industriale metropolitana; gli indigeni considerati culturalmente alienati, minus habentes; gli idiomi che esprimono la loro cultura bistrattata, degradati dal valore di “linguaa “minus valore” “ dialetto”, da estirpare e buttare (la rapina del minus-valore !). Laddove i popoli indigeni non concordano con i progetti elaborati dalle élites, che mistificano il proprio tornaconto facendolo apparire come “progresso tout court, essi possono essere sempre rappresentati quali terroristi pericolosi; primitivi, gretti, egoisti, ostacolo allo sviluppo.

E’ l’inversione dell’etica: colto, aperto e positivo il “cittadino”; ignorante, rozzo, testardo e meritevole di “conversionedi “emancipazione, quando non di severa condanna, il “montanaro:insomma, un “eretico , cui spettava, un tempo, l’abitello giallo o il rogo, ed oggi il disprezzo sociale dei benpensantismo cittadino.

E’ l’antica favola del lupo prepotente a monte e del povero agnello, accusato di intorbidire l’acqua ma a valle…

Così Dolcino, Margherita e Longino appaiono, emblematicamente, mitici eroi di una civiltà alpina che “resiste. Personaggi maestosi e tragici, in presa col destino e con le forze di una natura ostile, eroi simili a quelli della tragedia greca che guardano il volto misterioso del fato, cui non possono resistere; dovranno cedere, saranno sbalzati fuori dalla vita ma, lottando, fedeli alla loro passione,anche se soccombono, conservano una loro grande dignità.

Come i personaggi del romanziere svizzero Charles-Ferdinand Ramuz (1878-1947), ed in particolare penso al protagonista di un suo romanzo celebre, Farinet, montanaro reale, fuorilegge valdostano divenuto nel Canton Vallese un mito (12).

Lo scrittore friulano Carlo Sgorlon, in un suo romanzo racconta :

la moderna e sempre valida favola della prevaricazione dell’uomo sulla natura, favola antica della dabbenaggine e del miraggio del progresso che, alleati contro l’equilibrio della creazione, scatenano il sangue ferito della terra. Perché uccidono il passato, scambiandolo per passatismo, in nome di un avvenire che è furto, consacrazione, improvvisa padronanza del fuoco degli dei”.


In questo romanzo si staglia la figura di Siro, un montanaro contrario alla strada ed alla diga progettata ed in fase di realizzo: il racconto è ispirato alla tragedia del Vajont, anche se i toponimi sono mutati.


A chi diceva, a Siro,: sei tu, fuori dal tempo. Dov’è il pericolo? Nei lavori della strada? Replicava : ma certo. Cominciano sempre con una strada. Se lasciate che la strada si faccia, poi sarà sempre tardi per ogni cosa.”

Lui conosceva le loro tecniche, le aveva viste applicate in molte altre valli. Dopo la strada, vedeva gente che avrebbe messo le mani ingorde su ogni cosa. Avrebbe sventrato i boschi per farne piste da sci, costituito ogni possibile diavoleria: seggiovie, impianti di risalita, funivie per salire in cima alle montagne senza muovere un solo passo; avrebbe fabbricato alberghi, rovinato i nevai del massiccio, e le valli e le montagne sarebbero state percorse da una ragnatela di fili d’acciaio e di piloni di cemento. Avrebbero deviato le acque……” “Le acque ? cosa centrano le acque? “ “ Non lo so. Dico per dire. So soltanto che rovinano tutto.” “ Siro, ragiona: la gente della valle aspetta da decenni che la strada sia fatta”. Ma lui non voleva ragionare. Era sconvolto dalla sua passione, e continuava a dire che bisognava fare una lega di tutta la gente per bloccare il progetto che ci minacciava, correre in tutti i paesi e soffiare con ogni forza dentro l’antico corno di bue, per gettare allarme. Lo guardai negli occhi ed ebbi l’impressione che non mi vedesse nemmeno. Mi sembra una sorta di eretico di altri tempi, un frà Dolcino uscito da secoli remoti ed entrato chissà come nel nostro tempo di motori e di macchine. Non si era accorto che quell’epoca era finita, che il frate di Novara e la sua donna dai capelli rossi erano stati bruciati vivi, e la sua gente massacrata e dispersa. Si era perduto un grande sogno, quelle antiche comunità montanare. Ma adesso i tempi erano cambiati, e sopravviveva soltanto un suo pallido fantasma nel fatto che la gente affamata andava a far legna nell’antico bosco demaniale. Tutto il resto era cambiato. Oggi i grandi feudatari esistevano sotto forma di banche e società finanziarie, le quali potevano anche riuscire in quello che era stato impossibile ai vescovi medievali. L’avrebbero fatto anche qui, ed anzi avevano già cominciato a farlo, ma opporsi era un’illusione mitica e fuori dal tempo…….”(13).


Ramuz e Sgorlon ci spiegano così, sia pure molto indirettamente, perché il Movimento contro il “Treno alta velocità “ (la TAV) in valle Susa abbia emblematicamente “recuperato frà Dolcino: è la seconda volta, dopo gli anni di fine – principio secolo – quando il movimento operaio valsesiano e biellese onorò il “precursore– che un movimento popolare riscopre Dolcino e lo rivendica. In Valle Susa, e in internet, circola una significativa lettera firmata “Dolcino e Margherita, da nessun luogo ( Utopia) che è un inno alla libertà della montagna, una strenua difesa di quella “bioregioneche una colossale strada ferrata vorrebbe ancor più sconvolgere (14).

Una valle già percorsa da autostrada, superstrada e ferrovia, sconquassata da una “grande opera che prevede montagne scavate per quindici anni, con milioni di metri cubi di materiale pericoloso da trasportare da qualche parte; cinquecento camions di transito giorno e notte nella valle per trasportare i detriti scavati; tonnellate di polveri circolanti nell’aria: le verifiche secondo le quali non ci sarebbe amianto nei terreni si sono rivelate inattendibili, il movimento “No TAV” ha portato alla luce le lacune dal punto di vista scientifico e la Procura di Torino ha aperto un’inchiesta. Si estende la desolazione di panorami cementificati, la distruzione di prati, l’ombra di viadotti, il grigio delle decine di piloni di cemento, antenne e tralicci aumentati in modo esponenziale. Inoltre le falde deviate o prosciugate, le acque inquinate. L’opera costa miliardi e miliardi di euro è dunque certamente dannosa per l’impatto ambientale, ma anche molto probabilmente inutile, come molti economisti hanno evidenziato. Il movimento che ha riconosciuto in frà Dolcino un emblema, antepone la tutela della bioregione e della salute agli interessi di coloro che Sgorlon, nel suo romanzo, ha chiamato “i nuovi feudatari, cioè poche ma potenti lobby economiche, spesso trasversali agli schieramenti politici. In realtà si confonde il “progresso”, che è liberazione dal bisogno e dal servaggio, con lo sviluppo, che non deve essere infinito, e che è destinato a schiantarsi a grande velocità contro la barriera del limite ecologico. Si sostiene che la TAV è indispensabile, altrimenti l’Italia non si modernizza.

Luciano Gallino su la “Stampa (15) si chiede se non siano proprio gli abitanti della Val Susa a fare, invece, il vero interesse nazionale, e che stiano spronandoci a pensare se è davvero conveniente trasformare l’Italia nella piattaforma logistica d’Europa, e se la perseveranza di realizzare la TAV senza valide ragioni sia la conseguenza dell’incapacità di esplorare in modo corretto altre opportunità di cui disponiamo.

Forse questi frà Dolcino, Margherita e Longino strenui difensori della bioregione alpina, e cioè di una regione-comunità in osmosi con il territorio, sono trascendentali, più personaggi mitici, tramandatici dalla tradizione popolare, che personalità storiche.

Da Robin Hood sino a Ghino di Tacco, al “Passatoreed ai “banditiadottati dall’epica popolare anche in tempi più recenti (16), la leggenda sembra consegnarci meglio dei documenti, una realtà più significante, certamente più coinvolgente e affascinante.

André Malraux (17) lasciò scritto: “solo il leggendario è vero”. Prima di lui, Beaudelaire aveva esclamato : “Sei sicuro che la leggenda sia proprio vera ? Ma che m’importa, se mi ha aiutato a vivere !E Alessandro Dumas va ancora oltre : “Si può violare la storia, purchè ci faccia un bel figliolo !”.

Dolcino, Margherita e Longino furono torturati atrocemente ed arsi vivi il 1° Giugno 1307. Malgrado secoli di demonizzazione, il movimento operaio li riconobbe precursori della lotta per il riscatto degli oppressi, e nel 1907 a Dolcino innalzò sul monte Massaro un obelisco alto undici metri, abbattuto vent’anni dopo (1927) dal regime fascista.

Ancora una volta si credeva di averla “ fatta finita con siffatti simboli scomodi. Il bisettimanale della curia, “Il Biellese”, scrisse allora che “quel povero cumulo di pietre aveva cessato di essere, ciò che si augurò e si credette dai promotori, un faro ed un punto di riferimento(18).

Ma non fu così. Nel 1974 sui ruderi di quell’obelisco sorse un cippo. Oggi, Dolcino, Margherita e Longino ci rifanno sentire la loro voce “altra”, fuori dal coro, come eroi dell’autonomia e della salvaguardia delle bioregioni.

Per dirla con Giuseppe Giusti, “ dopo morti son più vivi di prima”.


Note

(1) Ex seconda vero epistola eiusdem Dulcini,que facta fuit et missa anno Domini MCCCIII in mense dicembri, excerpta sunt que secuntur. In primis nominat se ipsum fratrem Dulcinum novariensen rectorem super omnes dicte congregationis apostolice. Item, sororem Margaritam pre ceteris sibi dilectissimam et fratrem Longinum de Pergamo et fratrem Fredericum de Novaria et fratrem Albertum Carentinum et fratrem Valdericum de Brixia discipulos; et ipsi et multi alii viri et mulieres plus quam centus consimiles supradictis et alia multitudo fratrum et sororum eiusdem congregationis in Italia plus quam IIII milia, omnes invicem sine vinculo exterioris obedientie sed interiori tantum subiecti et unitis. ( Bernardo Gui, De secta illorum qui se dicunt esse de ordine Apostolorum, in “ Raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento, ordinata da L.M. Muratori”, ( Historia Fratris Dulcini Heresiarche, a cura di Arnaldo Segarizzi). Tomo IX, parte V, Città di Castello, 1907, p. 22.

(2) Raniero Orioli, Venit perfidus heresiarcha. Il Movimento apostolico dolciniano dal 1260 al 1307, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1988, p 134.

Altra bibliografia recente ed essenziale sull’argomento :

Elena Rutelli, Fra Dolcino e gli Apostolici nella storia e nella tradizione, prefazione di Domenico Maselli, La Claudiana/Centro Studi Dolciniani, Torino 1979 ;

Corrado Mornese e Gustavo Buratti ( a cura di), Frà Dolcino egli Apostolici tra eresia, rivolta e roghi, Centro Studi Dolciniani / DeriveApprodi, Roma 2000;

Corrado Mornese , Eresia dolciniana e resistenza montanara, DeriveApprodi Roma 2000;

Tavo Burat, L’anarchia cristiana di fra Dolcino e Margherita, Leone & Griffa, Biella 2002 e 2007.

(3) Acta S. Offici Bonomie ab anno 1291 usque ad annum 1310 (A.S.O.) a cura di L. Paolini (Vol. 1°) e R. Orioli (Vol. II ) e di L. Paolini e R. Orioli (Vol. III), in Fonti per la Storia d’Italia, 106, Roma 1982-1984, p. 408 e pp 395,487-490.

(4) Arnaldo Segarizzi, Historia,etc. cit.in L. Muratori, cit.,p. XXXIII, n. 23.

(5) Cfr. G. Biscaro, Eretici ed inquisitori lombardi (1299-1318) in R. Deputazione sovra gli studi di Storia patria per le antiche province e in Lombardia, Miscellanea si Storia Italiana, Serie III, 19 (1922) pp. 525-526, passim per Lanfranco.

La sopravvivenza dolciniana nella bergamasca dopo i roghi, (a Biella ed a Vercelli) di Dolcino,Margherita e Longino, sarà rilevata a Gandino, Albino, Longuello e Martinengo, dove si è avuta la “sovrapposizione della dottrina dolciniana alla vecchie credenze dei poveri lombardi (valdesi) e a quelle più vecchie dei catari, già dominanti nel territorio di Bergamo ( e si ritiene che questa continuità) si fosse vieppiù intensificata negli anni successivi, procurando alla setta rinnovellata maggiore vigoria di fede e di sentimenti, nuovi e numerosi proseliti”

(G. Biscaro, cit. p. 500). All’Orioli sembra tuttavia che “più che a nuovi adepti,per il Bergamasco,sia il caso di pensare a sopravvivenze di vecchio proselitismo, formatosi, con ogni probabilità, intorno al 1303-1304, durante il passaggio ed il soggiorno dei Dolciniani nella zona “. (Orioli, cit.p. 291). Nel 1317, l’inquisitore Giovanni da Fontana opera un repulisti antiereticale nel Bergamasco che si conclude con diciotto arresti e dodici roghi (Biscaro, cit.pp. 498-500, 555-556)

(6) R. Orioli, cit. pp. 227-229

(7) R. Orioli, cit. pp 320

(8)……..ductis secum dicto Milano Sola et aliis multis personis de dicto loco Campartolii et aliis locis circumstantibus cum omnibus eorum bonis,quas personas ipse Dulcinus traxerat ad falsam sectam, se reduxerunt ad quondam montes diocesis Novarie, ubi dicitur ad Balmam….(Historia, etc. cit. p.4).

(9) Dictus frater Dulcinus heresiarcha personaliter captus fuit super montibus Triverii una cum Margherita de Tridento eius socia, et Longinus de Bergamo,qui erat de Cataneis da Faedo vel de Sacco, et erant maiores in dicta secta ( Historia, etc. cit. p.11)

Predictus Dolcinum, Longinum et Margaritam de Tridento tradidit sudicio seculari,ita quod dicta Margarita primo fuit combusta super quidam columna alta posita in arena Servi et plantata ibi et ordinata,ut omnibus videri possent positisque in eorum conspectum vasibus ignem plenis ordinatus ad calefaciendum tenabulas ad carburendum carnes ipsorum, adhibitis carnifibius, qui cum tenabulis ferri candentis carnes eorum laniabant et frustatim gravior esset; multi quos leserant in personis et here videntes tantam stragem talemque iustitiam fieri de eisdem consolationem habueunt et gaudium de vindicta penaque eorum, ut aliis transiret in exemplum : bonis in laetitiam, malis vero ad supplicium et totius secte predicte pavorem detrimentum et obbrobrium sempiternum. Predicte autem pene illate fuerunt predictis Dulcino et Longino in locis diversis, videlicet Dulcinus in civitate Vercellarum, ipsum ducendo cum cruciatibus et tormentis suprascriptis per via set vicos ac palesa dicte civitatis, Longinus vere in loco Bugelle

……..(Historia, etc. cit. p. 12).

Non abbiamo un’iconografia affidabile dei capi apostolici, ma soltanto ritratti di fantasia privi di valore storico, “ come la teatrale gestualità iconografica del dipinto del 1880 approntato nella chiesa matrice di Trivero ( Biella) e raffigurante un Dolcino in talare bianca e cappello piumato secentesco, una Margherita che ricorda Francesca da Rimini di Ingres ed un Longino in armatura secentesca “ (R. Orioli, Venit ecc. cit. p 205 n. 282).

(10) Cfr. Gualtiero Cìola, Le rivolte contadine in Europa,in G. Cìolan, A. Colla, C. Mutti, T. Mudry, Rivolte e guerre contadine , Soc. ed. Barbarossa, Milano,p.19.

Sulle “Badìeo “Abbazie dei Folli: G.C. Pola Falletti Villafalletto, Associazioni Giovanili e Feste Antiche , vol 1°, Torino 1939.

(11) Cfr.Gustavo Buratti, Decolonizzare le Alpi , in AA.VV. Prospettive di vita nell’arco alpino. Interventi di uomini di studio e d’esperienza sul passato,il presente e il futuro di vita nell’arco alpino , Jaca Book, Milano 1982, pp. 64-83.

(12) Corrado Mornese, Farinet il falsario dal grande cuore , in C. Mornese e G. Buratti(a cura di),

Banditi e ribelli dimenticati , Lampi di Stampa, Milano 2006,pp. 131-134 e 338-343.

(13) Carlo Sgorlon, L’ultima valle, Oscar Mondatori, Milano 1989, pp 53-55.

(14) Cfr. Vittorio Agnoletto, Quei ripensamenti sulla TAV, lettera al “Corriere della Sera”,12.X.2006,p. 53; Alleanza per l’opposizione a tutte le nocività, Treni ad alta velocità. Perché il treno ad alta velocità è un danno individuale e un flagello collettivo ; Nautilus, Torino 1993 e 1996; Antonio G. Calafati, Dove sono le ragioni del si ? La TAV in Val Susa nella società della conoscenza, Seb 27, Torino 2006.

(15) “La Stampa”,7.12.2005

(16) C. Mornese e G. Buratti, ( a cura di), cit.

(17) André Malraux ( 1901-1976), scrittore e uomo politico francese,archeologo, studioso di Sanscrito,personalità della Resistenza e dell’impegno anticolonialista ,combattente della guerra di Spagna, ex internato.

Nei suoi romanzi primeggia l’aventure, l’azione sollecitata da una volontà imperiosa, dove l’eroe ritrova la coscienza della solidarietà umana.

I suoi numerosi romanzi ( 1921-1949) sono raccolti in un volume unico,La voix du silence (1951).

(18) L’obelisco di frà Dolcino abbattuto, “Il Biellese” – bisettimanale cattolico, 2 agosto 1927.








Il movimento operaio, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, riscoprirà e "rivendicherà" Dolcino, riconoscendo in lui il precursore delle lotte di liberazione delle classi subalterne, e soprattutto l'apostolo del "Cristo socialista", vittima del potere politico, economico e colonialista. Nel 1907, VI° centenario del Martirio, sul monte Massaro (da "Mazzaro", altro toponimo relativo al massacro… ) è eretto dagli operai un obelisco alto 11 metri, inaugurato l’11 agosto alla presenza di 10.000 convenuti entusiasti che coprono la montagna di bandiere rosse. Vent'anni dopo, a fine luglio 1927 (erano gli anni del fidanzamento del regime fascista con la Chiesa cattolica: nel 1929 ci sarà il matrimonio/concordato) il fascismo abbatterà quel monumento punto di riferimento per una riscossa della cultura "altra". Il 14 settembre 1974, 600 anni dopo l'ultima condanna degli Apostolici (sinodo di Narbona), sui ruderi dell'obelisco fiorisce un cippo; del Comitato promotore fanno parte, tra gli altri, Cino Moscatelli, epico comandante della Resistenza partigiana "nei luoghi dove combatté Dolcino", Dario Fo, Franca Rame e Osvaldo Coissono, uno dei sei redattori di quella "dichiarazione di Chivasso” ( 13 dicembre 1943) con la quale si preconizza, per la nuova Italia, il federalismo, l’autonomia politica, culturale e amministrativa delle Valli alpine. Ogni anno, al Massaro (panoramica Zegna, Trivero, Biella) si celebra una festa libertaria, la seconda domenica di settembre.



Qui di seguito due stralci della stampa socialista biellese del 1907



LA VESPA

15 giugno 1907


PER IL VI° CENTENARIO del SUPPLIZIO DI FRA DOLCINO


Quale improvviso faro in notte oscura

Adduce in porto pavido nocchiero,

tale, in quel servo secol di paura,

brillò il tuo rogo per l’uman pensiero.


Dal tuo cener, disperso alla planura

Da’ venti, battaglier surse Lutero;

e risonò più libera e sicura

la tua voce nel riso di Voltero.


A l’alba santa de l’ottantanove

Il tuo ribelle spirito ridesto

Parigi armò di ferro e di furore.


E or, col verbo di Marx, gridi a le nove

Plebi frementi: In alto i cori! Presto

verrà il dì del riscatto e dell’amore.



Giuseppe Giorgio Mossa

IL CORRIERE BIELLESE

18 agosto 1907

Sul Monte dei Ribelli


Giove Pluvio – dopo tanto tempo di inattività – proprio sabato – alla vigilia della commemorazione di Fra Dolcino – ha voluto mostrare il suo malumore. Quasi durante tutta la giornata di sabato la pioggia è caduta a catinelle. E neppure verso sera, il tempo ha mostrato di volersi rasserenare.

Ci siamo cacciati in letto disperati . Contro il tempo non ci si può nulla. Il tempo fa i comodacci propri e quando vuol inzupparci i panni, non ci domanda punto il “permesso”.

Contro il tempo è forse essere filosofi, e se piove…. Lasciar piovere, e se fa sole lasciarsi scottare il groppone.

Ma pure non potevamo neppur pensare che – causa cattivo tempo – la commemorazione dovesse essere rimandata. Il rinvio – in questi casi - vuol dire sempre rovina della festa, poiché ammorza due terzi dell’entusiasmo e diminuisce di molto il numero dei partecipanti. E la non riuscita diventava una mortificazione ed un avvilimento per tutti i buoni che da ogni paese, anche lontanissimo, hanno versato il loro obolo, e per tutti gli altri valorosi che hanno lavorato gratuitamente di spalla e di braccia per innalzare l’obelisco. La non riuscita avrebbe anche ridotta a zero l’importanza della festa e avrebbe anche ridotta a zero l’importanza della festa e avrebbe fatto sghignazzare i nostri avversari.

Per tutte queste ragioni, domenica mattina abbiamo sporto il naso fuor dalla finestra con mente tutta piena di punti interrogativi. Pioverà? Verrà gente? Riuscirà?

Abbiamo visto in cielo scintillare le stelle e l’animo s’è riempito di speranza. In strada abbiamo incontrato gruppi numerosi anche essi avviati verso la stazione. E ci siamo convinti subito che la festa non poteva fallire.


La partenza da Biella


La augusta ed…. economica stazione delle Ferrovie Economiche è presa d’assalto. Siamo in molti. Troviamo molti compagni e i amici che vengono dai paesi vicini e anche lontani. Molti sono venuti col cavallo di S. Francesco. Ma non sono stanchi: Chiacchierano, ridono, salutano. Non mancano le donne. Brave!

I vagoni sono zeppi. Il treno lunghissimo, si mette in moto con la movenza di un bestione sonnolento.


Lungo il percorso


Dal reclusorio industriale dei Rivetti – vicino al quale il treno passa – molti ci gridano in silenzio. Noi gridiamo: Viva Fra Dolcino!.

Vorremmo gridare loro dappiù. Poiché essi dormono e subiscono in pace il lavoro enorme vorremmo loro gridare: Venite, venite anche voi!

Ma il treno affretta la corsa. Siamo a Chiavazza, e poi a Vigliano. E ad ognuna delle fermate la gente sale numerosa affollatissima.

Valdengo, Ceretto, Quaregna. Ecco tre paesi dai quali non salirà alcuno. Invece, no. Anche qui troviamo gente che ci aspetta e sale con noi.

A Cossato, Lessona, Strona, delle vere folle invadono i vagoni. Troviamo molti curiosi che vengono a guardarci ovunque il nostro treno passa fischiettando e sbuffando. Noi siamo tutti ai finestrini. Viva Fra Dolcino! Gridiamo. Viva Fra Dolcino! Ci si risponde.

E noi pensiamo con tristezza: forse, di questi uomini che ci seguono con lo sguardo e di queste donne che ci salutano sorridenti, molti e molte hanno la nostra stessa fede e verrebbero con noi. Ci chiediamo: Perché non vengono?

Rispondiamo noi stessi. Lo sappiamo, lo sapete, lo sanno tutti. In mezzo ai miserabili senza soldi ve ne sono di più miserabili sempre, che non vedono la croce di un quattrino, che sono condannati eternamente a piegare la schiena.

Da lontano spunta, librandosi nel cielo, l’obelisco. Noi lo guardiamo e lo salutiamo plaudenti.


A Vallemosso


Siamo arrivati alla prima tappa. La musica ci saluta con una marcia piena di brio.

La folla grida e batte le mani entusiasta.

Incominciamo a sventolare le bandiere.

Il corteo è in breve disciplinato e si avvia festosamente verso Mosso S. Maria.


A Mosso S. Maria


Da tutte le parti viene gente ad incontrarci. Un'altra musica viene verso di noi. Così al suono dei nostri inni, invadiamo la piazza. E’ ancora presto. Si ingoia un boccone e poi molti si incamminano verso il monte.


Verso la vetta.


Mentre saliamo faticosamente, guardiamo l’obelisco che si vede benissimo. La sua vista ci allieta. E si cammina, si cammina: tutto il pendio formicola di gente che si arrampica, che suda, che riposa. Più in altro, altra gente cerca di arrivare fin in vetta.

Si va senza fretta. Per ingannare il tempo e la fatica, si chiacchiera. I preti (prega per noi, don Maccalli!) entrano in tutti i discorsi.

Tutti sono lieti che sia stata organizzata questa grandiosa dimostrazione anticlericale.

Era ora di svegliarci, di far vedere che non siamo degli imbecilli, di dimostrare che siamo liberi e coscienti! Anche le donne sono con noi.

La salita è difficile. Ci si stanca. Ma ci incoraggiamo con un motto, con la mano, con la voce. E si riprende il cammino.


Sul monte Ribelle


Siamo alla meta.

Tutto il dorso del monte rigurgita di uomini, di donne, di ragazzi, venuti da ogni dove.

Intorno all’obelisco si è accampata una vera calca di gente che mangia, scherza, beve, attendono l’ora dei discorsi.

Tratto, tratto echeggiano evviva ed applausi.

Poi arriva il corteo. Sul vertice dell’obelisco vien piantata la rossa bandiera che sventola agitata dal vento ed inondata di sole.

Si avvicina l’ora dei discorsi. Giudo Podrecca col piccolo Goliardo fra le braccia, seguito dalla famiglia e da molti compagni, sale verso l’obelisco. Ovunque passa è salutato da applausi e da evviva entusiastici. Le musiche suonano.

Il comizio


Sono appena le 13. Il sole dardeggia terribilmente, ma pure intorno all’obelisco la folla che vi si accalca è enorme – incalcolabile. Saranno otto o diecimila persone.

Il calcolo esatto non è possibile. Dinnanzi a noi vediamo un mare sterminato teste, confuse insieme. Verso le 13, il prof. Corte, per il Comitato, dichiara aperto il comizio e l’avv.

Umberto Savio legge l’elenco delle società intervenute.






















































Società con bandiera:



  1. Candelo, Società operaia

  2. Occhieppo inferiore, Leghe riunite

  3. Biella, Società Archimede

  4. Id. Camera del Lavoro

  5. Id, Sezione socialista

  6. Id, Circolo socialista

  7. Brusnengo, Società agricoltori ed operai

  8. Vigliano, Società mutuo soccorso

  9. Valle Mosso, circolo socialista

  10. Biella, unione pannilana

  11. Biella, Federazione metallurgica

  12. Vercelli, Associazione generale operai

  13. Id, Camera del Lavoro

  14. Id, Società Archimede

  15. Flecchia, società mutuo soccorso

  16. Pienceri, circolo socialista

  17. Flecchia, circolo socialista

  18. Veglio Mosso, società mutua figli del lavoro

  19. MANCANTE

  20. Coggiola, circolo socialista

  21. Masserano, circolo socialista

  22. Graglia-Muzzano, circolo socialista

  23. Biella, sezione libero pensiero

  24. Camandona, società mutuo soccorso

  25. Ronco, sezione socialista

  26. Adorno, municipio

  27. Id, società operaia

  28. Id, circolo socialista

  29. Sagliano Micca, società operaia

  30. Id, società cappellai

  31. Valle S. Nicolao, sezione socialista

  32. Pollone, circolo socialista

  33. Cossato, sezione socialista

  34. Id, società operai

  35. Id, municipio

  36. Valle S. Nicolao, società operai

  37. Lesiona, lega contadini

  38. Soprana, società operaia

  39. Croce Mosso, municipio

  40. Borgosesia, federazione lavoranti panettieri

  41. Aranco, circolo vinicolo

  42. Serravalle, lega cartai

  43. Id, sezione socialista

  44. Biella, sezione ferrovieri

  45. Castelletto Cervo, sezione socialista

  46. Strona, municipio

  47. Trivero, società operaia

  48. Croce Mosso, sezione socialista

  49. Id, società operaia tessitori

  50. Torino, loggia massonica “Dante Alighieri”

  51. Alessandria loggia massonica “Vochieri”

  52. Milano, loggia massonica “La ragione”

  53. Mezzana, municipio

  54. Valle Strona e Ponzone, lega arti tessili

  55. Trivero, sezione socialista

  56. Chiavazza, sezione socialista

  57. Adorno, società cappellai

  58. Biella, loggia massonica “verità”

  59. Torino, loggia massonica “Cavour”

  60. Id, loggia massonica “Ausonia”

  61. Pinerolo, loggia massonica “G. Bruno”

  62. Asti, loggia massonica “V. Alfieri”

  63. Bergamo, loggia massonica “Pontida”

  64. Genova, loggia massonica “Stella d’Italia”

  65. Valle mosso, antica società operaia

  66. Mezzana, circolo anticlericale

  67. Id, circolo Mameli

  68. Varallo, lega muratori

  69. Id, circolo socialista

  70. Adorno, unione miglioramento cotonieri

  71. Prato Sesia, sezione socialista

  72. Id, società operaia

  73. Biella, unione cooperativa

  74. Roma, Grande oriente, grande loggia simbolica

  75. Piane Sesia, sezione socialista


Intervennero senza bandiera:


  1. Portula, sezione socialista

  2. Candelo, circolo socialista

  3. Veglio Mosso, municipio

  4. Pralungo (S. Eurosia), circolo socialista

  5. Vercelli, circolo socialista

  6. Id, società muratori e affini

  7. Masserano, lega contadini

  8. Vercelli, lega metallurgici

  9. Id, lega orefici

  10. Id, lega facchini e carrettieri

  11. Id, lega calzolai

  12. Id, lega falegnami

  13. Ronco, lega arte edilizia

  14. Valle S. Nicolao, gruppo femminile

  15. Pollone, sezione pann.

  16. Sordevolo, sezione socialista

  17. Lesiona, sezione socialista

  18. Vergnasco, cooperativa

  19. Id, società operaia

  20. Alessandria, municipio

  21. Soprana, circolo socialista

  22. Id, municipio

  23. Tavigliano, lavoranti cappellai

  24. Zumaglia, municipio

  25. Id, società mutuo soccorso

26. Id, sezione socialista



La raccolta degli articoli sulla stampa Biellese è stata pubblicata nel libro Maledetto Fra dolcino – Storia di una memoria scandalosa. a cura di C. Mornese e Tavo Burat - ed. Lampi di stampa. 2007.

APPENDICE

Articoli di Paolo Secco pubblicati su OUSITANIO VIVO sul tema delle Eresie nel Cuneese.



DALMAZZO E LA LEGIONE TEBEA

O.V. n. 3, Marzo 2000 di Paolo Secco

Inizia con questo numero una nuova rubrica che percorrerà la storia nel corso dei secoli della cultura religiosa nelle valli Occitane, con riferimenti, quando sarà il caso, alle zone limitrofe, cercando di cogliere il significato, al di là delle fonti storiche ufficiali e delle interpretazioni pseudo oggettive dei fatti, di tale religiosità, permeata talvolta da tradizioni e culti di matrice non strettamente ortodossa, tramandatisi fino ai giorni nostri. Si cercherà insomma di fare una panoramica storica generale di come il cristianesimo, nel corso del tempo, abbia condizionato, se non addirittura plasmato la cultura occitana alpina che, pur con le sue peculiarità, non è mai stata cosa a sè in relazione all’area Occitana presente fino ai Pirenei. Per fare tutto ciò è necessaria peraltro la collaborazione di tutti coloro che, interessati all’argomento, abbiano voglia e tempo di portare a conoscenza di altri fatti, notizie, ricordi tramandatisi magari nell’ambito famigliare, riguardanti l’oggetto della nostra ricerca, così da creare una sorta di archivio, e qui il nostro obbiettivo si fa sicuramente immodesto ma estremamente interessante. Tutto ciò in quanto nello studio delle culture tradizionali si presenta sovente il fatto che alcune persone conoscono avvenimenti, particolari modi di dire o accadimenti vari da sempre presenti nella trasmissione orale tra generazioni, di cui non si ha però la consapevolezza dell’eventuale valore storico-documentale. Si parlerà anche dei movimenti ereticali, presenti in modo assai diffuso nell’Occitania Sud Occidentale (Catari) e in alcune zone del nord Italia (Valdesi-Catari), ma con influssi senza dubbio importanti, anche se circoscritti geograficamente, nelle nostre vallate.

La storia dell’evangelizzazione è ovunque caratterizzata da una serie notevole di tradizioni ove leggenda e realtà finiscono per confondersi, rendendo il più delle volte difficile comprendere quanto di vero sia accaduto. E’ certa comunque, o almeno da quasi tutti gli storici accettata, la presenza nelle nostre valli Vermenagna, Gesso e Stura, nella prima parte del III secolo d.C.di tal Dalmazzo, quello che sarà presto da tutti assunto al ruolo di santo.. Non mancava allora nei nostri paesi qualche sporadica presenza cristiana, se non altro per il frequente avvicendarsi di funzionari imperiali e militari romani già evangelizzati, e per i continui contatti commerciali con la Gallia Transalpina, ove già esistevano forti nuclei cristiani, in particolare a Nizza e Lione. Tuttavia predominava pressochè incontrastata una cultura di stampo pagano, pur in forme non ben definite e sicuramente varie. La tradizione cristiano-popolare nei secoli successivi presenta la figura del santo secondo uno schema tipico dell’agiografia medioevale. Dalmazzo, di nobili origini romane, apparteneva infatti alla famiglia Flavia Secunda, e si era proposto il compito di cristianizzare i popoli pagani, dopo aver ovviamente abbandonato tutti i beni di famiglia. Alcuni storici, in contrapposizione (Gabotto), lo identificano in un predicatore venuto non si sa bene come e perchè da lontane terre straniere. Più probabilmente, come alcuni studi recenti denotano, era di origine locale; ma qualunque sia stata la sua provenienza, è entrato prepotentemente nella tradizione popolare successiva come un santo taumaturgo di eccezionali capacità. Si tramandano infatti sue guarigioni miracolose ad Alba, a Milano e fino in Provenza. E fu proprio al ritorno da uno dei suoi viaggi al servizio del Vangelo che trovò la morte, si dice, il 5 dicembre 254 d.C. alla confluenza dei fiumi Gesso e Vermenagna presso il nucleo abitativo di Pedona (1) attuale Borgo San Dalmazzo, assalito, non si sa bene da chi, con alcuni suoi compagni e con alcuni abitanti del luogo giunti ad accoglierlo. Come abbiamo detto, le fonti agiografiche fanno di Dalmazzo un martire del III° secolo, ucciso appunto ai tempi dell’Imperatore Gallieno e di Papa Cornelio, ma tutto ciò richiederebbe uno studio molto approfondito e soprattutto critico, in quanto in realtà non esistono testimonianze dirette dell’epoca in questione. La fonte più antica in proposito, ma anch’essa comunque discutibile, è un’omelia “In dedicatione Ecclesiae”, attribuita al vescovo di Cimiez Valeriano, negli anni 450-460. Testo in cui, riferendosi al valore umano e religioso del martirio, si accenna appunto ad un martire divenuto tale nel luogo ove “due rivi limpidissimi mescolano le loro acque”. (2) Per riprendere peraltro il discorso su quanto è stato trasmesso nei secoli dalla memoria popolare, alcuni santi, quali Magno, Costanzo, Besso, che la tradizione identifica appunto come appartenenti alla famosa Legione Tebea, sono stati invece, da alcuni studi recenti, riportati nell’ambito di una più probabile influenza Dalmaziana, come suoi eventuali discepoli nel periodo successivo al martirio. Si inserisce a questo punto un discorso complesso su quello che fu effettivamente l’influsso e l’importanza della cosi detta “Decima Legio” la famosa Legione Tebea appena citata. Denominata in molti modi (Angelica Legio, Beata Legio) viene nominata, ad esempio, nel 434 dal Vescovo di Lione Eucherio nella “Passio Acaunensium Martyrum” (3). La tradizione riporta di un contingente di Legionari Romani reclutati “in natione thebea” (Egitto), inviati nel 286 da Diocleziano nei pressi di Martigny (Octodurium), in aiuto delle truppe già presenti sul luogo, impegnate contro le popolazioni locali. La legione sembra si sia rifiutata, in quanto composta completamente dai soldati cristiani, di massacrare popolazioni inermi, e fu così passata per le armi. In questa versione, che è forse la più attendibile, è verosimile pensare, tenuto conto della consistenza numerica della legione, ad una decimazione, il che spiegherebbe e renderebbe logica la sopravvivenza di molti che in seguito, disertando, si rifugiarono nelle regioni più remote dell’arco alpino, facendo così opera di evangelizzazione. Si ricordano almeno 400 nomi di soldati della legione scampati all’esecuzione di “Agaunum”, diventati successivamente oggetto di culto e ovviamente santificati; di questi almeno una cinquantina in Piemonte e altri ancora in Francia, Svizzera, Germania. Ovviamente l’elenco è incompleto e comunque non sempre attendibile, sta di fatto che le figure di questi santi, passati nella tradizione popolare come protettori di paesi, guaritori, guerrieri, praticamente sempre martiri, compaiono quasi ovunque rappresentati in divisa da legionari nell’iconografia locale (cappelle, quadri, affreschi). E’ anche significativo il fatto che tutti questi valorosi, scampati ad una condanna ingiusta, siano rimasti poi vittime delle popolazioni locali, o almeno di una parte di esse, come reazione alla pretesa di evangelizzazione, che avrebbe comportato l’abbandono di antichi culti e tradizioni insiti nella cultura del tempo. ^ (1) - L’allora Pedona era sicuramente uno dei maggiori centri abitativi del Sud Piemonte. Assunta a Municipium. già nel I° secolo d.C. era sede di una “statio doganale” per il controllo del traffico attraverso i valichi delle Alpi Marittime, con l’imposizione di un dazio pari al 2,5% del valore delle merci in transito (Quadragesima Galliarum)

^ (2) - “Storia religiosa delle Valli Cuneesi - Diocesi di Cuneo” a cura della Curia Vescovile, Cuneo.

^ (3) - “San Dalmazzo di Pedona” C. Tosco -SSSAA di Cuneo, 1996. “Le vie della fede attraverso le Alpi” C.Bocca - M. Centini, Ivrea, 1994.

LA COMPARSA DELL’ERESIA NELL’EUROPA CRISTIANA

O.V. n. 8, Settembre 2000 di Paolo Secco

Dopo i secoli in cui le invasioni saraceno/ungare furono al centro della vita quotidiana delle nostre genti, quando la dottrina cristiana, nel pieno del suo sviluppo, aveva ormai conquistato tutta l’Europa, arriviamo finalmente ad un periodo di relativa stabilità ed equilibrio socio-religioso.

Dopo le grandi paure, figlie delle terrificanti profezie apocalittiche che indicavano la fine del millennio come sicura fine del mondo, all’alba del nuovo millennio, come un brutto sogno, comincia a delinearsi nella mentalità dei credenti una nuova visione della vita cristiana.

All’inizio del X° secolo, per opera di Guglielmo I°, duca di Aquitania, e dell’Abate Bernone, era stata fondata in Francia l’Abbazia di Cluny, la più famosa ed importante nei secoli a venire.

In poco tempo, superando i princìpi e gli stimoli del monachesimo originario (il lavoro, la preghiera, l’isolamento dal mondo) Cluny divenne un centro di potere enorme, ago della bilancia nelle scelte politiche di tutta l’Europa occidentale, accumulò ingenti ricchezze, esautorando addirittura il papato in molte situazioni di intervento nell’ambito religioso-culturale.(1)

In questo periodo è veramente difficile distinguere storia religiosa e storia istituzionale, il concetto di Chiesa viene fatto coincidere con il suo vertice, ed il papato cerca di riservarsi ogni rappresentanza del divino in terra. In Occidente risulta infatti decisiva la riforma gregoriana, operata appunto da Gregorio VII° nel periodo del suo pontificato, tra il 1073 e il 1085. (2)
Nella lotta contro il potere costituito, per l’affermarsi della "libertas ecclesiae", la libertà e indipendenza della Chiesa dai poteri laici, le autorità ecclesiastiche rivendicano il diritto di intromettersi in qualsiasi aspetto della vita quotidiana, rendendosi così giudici di ogni comportamento dei fedeli, dalle loro vicende più intime fino agli avvenimenti più importanti. E’ questo un processo che porterà a pesanti conflitti con i poteri forti, e a livello più quotidiano, con gli interessi laici e materiali di quelle classi emergenti di mercanti, artigiani, e più in generale di "cittadini", che a poco a poco dal XII° secolo verranno a formarsi. (3)

Contemporaneamente, mentre il vertice ecclesiastico è impegnato ad irrobustirsi, alla periferia della cattolicità nascono nuovi movimenti monastici: i Vallombrosiani e i Camaldolesi in Italia, i Certosini e i Cistercensi in Francia, comunità che daranno spunto a tutta la spiritualità dei secoli a venire.

Fra le stesse popolazioni sorgono fermenti di critica dovuti in buona parte alla corruzione del clero, evidenziata agli occhi di tutti con casi di simonia, concubinaggio e malaffare. Nascono così idee di riforma che, se da un lato daranno luogo ai noti esempi di vita apostolica basati sulla povertà, citiamo per brevità San Francesco, gli Ordini di Frati Minori, gli Ordini Mendicanti, d’altro canto sfoceranno in una serie ininterrotta di movimenti eterodossi, che spesso verranno impropriamente chiamati Ereticali.

Il vocabolo greco "hàiresis" significava semplicemente "scelta". Fu Paolo di Tarso, il futuro San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, attorno al 50 d.c., ad usare questa parola in senso negativo, riferendosi a chi aveva fatto una scelta dogmatica differente. Costituitasi poi la Chiesa come istituzione gerarchica, depositaria del "Patrimonium Fidei" (4), l’eresia si configura come elemento disgregativo dell’unità religiosa, per cui prevale il concetto che gli eretici non devono soltanto essere confutati ed evitati, ma puniti come traditori.

Eresie furono da sempre presenti, fin dai primi secoli dell’era cristiana (Gnostici, Pauliciani, Docetisti) ma in maggioranza si trattava di confutazioni e diversificazioni di stampo prettamente teologico – dottrinale, non toccando peraltro la gran massa dei fedeli. Il più delle volte tali sistemi di pensiero si persero nel tempo, soffocati dall’espandersi e dall’intransigenza dell’ortodossia ufficiale, altre volte furono soffocati nel sangue, come nel caso noto di Priscilliano, Vescovo di Avila, in Spagna, giustiziato nel 385. Fu questo probabilmente il primo caso di condanna a morte di eretici. Priscilliano, che in realtà promuoveva un genere di vita ascetico ed intransigente, con aspetti dottrinali non troppo evidenti di dualismo, subì per primo quella che secoli più avanti divenne una regola nei processi inquisitoriali, la commistione fra eresia e magia (5)
Ma per ritornare al periodo in questione, il cronista Ademaro di Chabannes ci informa della comparsa nel 1018, in Aquitania, di gruppi di Manichei, ovvero eretici che, a suo parere, ripercorrevano le dottrine di Mani, importante figura del III° secolo, fondatore di una religione dualista (6). Costoro seducevano le folle, negando, tra l’altro, il battesimo, gli altri sacramenti e tutto quanto proprio del corrente insegnamento cristiano (7).
Alcuni anni dopo, nel 1022, Ademaro ancora una volta designa come Manichei, e quindi eretici, un gruppo di canonici di Orlèans. L’episodio è sicuramente uno dei più noti, ne parla infatti diffusamente anche Raoul Glaber, monaco borgognone, autore dei "Cinque libri di Storia, 900-1044", considerato tra i maggiori cronisti dell’epoca. Il movimento in questione non risultò per la verità molto esteso, e fu presto evidente che coinvolgeva soltanto una ristretta cerchia di uomini di cultura nell’ambito della chiesa locale; furono condotti, in numero di sedici, dinnanzi ad un Concilio, giudicati colpevoli di eresia e quasi tutti bruciati sul rogo. In questo caso fu poi chiaro, da fonti successive, come la differenza culturale fra i canonici ed i loro giudici non permise a questi ultimi di cogliere appieno le sfumature concettuali e l’eterodossia del gruppo, tanto da usare genericamente il termine di Manichei. Negli stessi anni è documentata, se così si può dire, una vicenda a noi molto più vicina, sia per localizzazione geografica – si svolse infatti nelle Langhe – sia per motivi attinenti alla storia successiva dell’eresia Catara o Albigese: ci riferiamo infatti ai cosiddetti Catari di Monforte.

Note:

  1. Cantarella G.Maria, "I monaci di Cluny" Ed. Einaudi, 1993-1997.

  2. "Manuale di storia delle religioni" a cura di Filoramo, Massenzio, Raveri, Scarpi. Ed. La terza, 1998.

  3. Grado G. Merlo, "Il cristianesimo latino bassomedioevale" (in "Storia del Cristianesimo-Il Medioevo" a cura di Filoramo e Menozzi, Ed. Laterza, 1997.)

  4. Craveri Marcello, "L’Eresia, dagli Gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del Cristianesimo" Ed. Mondatori, 1996.

  5. Ginzburg Carlo, "Storia notturna – La decifrazione del sabba" Ed. Einaudi, 1989.

  6. Il Manicheismo presupponeva infatti l’esistenza di un Dio del bene e di uno del male, principi contrapposti nella cui lotta, attraverso vari stadi, si attuava la salvezza dell’Uomo, con il trionfo del bene. Si presentava come una fusione di elementi esoterici tradizionali nelle più diffuse religioni orientali ed occidentali, e tale fu la sua fortuna (Sant’Agostino stesso prima della conversione ne fu ammaliato) che nei secoli successivi gli eresiologi usarono battezzare ogni dottrina pseudodualistica con il suo nome.

  7. Manselli Raoul, "L’eresia del male" Ed. Morano, 1963.

GLI ERETICI IN CASA NOSTRA: MONFORTE


O.V. n.9 , Ottobre 2000 di Paolo Secco


Monforte, piccolo e ridente paesino posto su una collina delle Langhe, è famoso per produzione di ottimi vini e per l'originale auditorium ove si svolgono applauditissimi concerti. Tutto potrebbero pensare i turisti che ne riempiono la piazza, ma sicuramente non sono consapevoli, per la maggior parte, della tragedia qui avvenuta mille anni fa. Monforte non è un paese di cultura occitana, ma è importante nella nostra storia in quanto, forse per la prima volta, nell'Italia del nord -ovest si conobbero l'intolleranza e la repressione violenta da parte dell'apparato ecclesiastico, che diverranno poi nei secoli successivi la regola nel resto d'Europa ed in particolare in Terra d'Oc. In questa località, all'inizio del nuovo millennio, visse, inizialmente indisturbata, una comunità di eretici, la cui dottrina si può definire vagamente precatara, fino a quando tra il 1026 ed il 1028 subirono lo sterminio in gran numero.

Due sono le fonti storiche utilizzabili in questa strana vicenda: la prima è rappresentata da Landolfo Seniore, cronista milanese dell'epoca; la seconda, meno precisa e ben più esile, è data da quel Raoul Glaber, o Rodolfo il Glabro, monaco borgognone, ed anch'esso cronista, da noi già in precedenza conosciuto (2). Landolfo Seniore, nel suo testo, descrive soprattutto le gesta dell'Arcivescovo di Milano Ariberto D'Intimiano, che avrebbe, in ultimo, fatto espugnare il castello di Mons-Fortis/Monforte. Così cita la fonte: "In quel tempo Ariberto giunse a Torino accompagnato da una schiera di buoni chierici e da una truppa di valorosissimi guerrieri (...) sentì parlare di una non ancora udita eresia, che da alcun tempo si era manifestata nel castello sopra la località detta Monte Forte. Avendo udito ciò, ordinò subito che da quel castello gli venisse condotto un uomo di quell'eresia, per meglio conoscere la questione". Il racconto prosegue poi con il colloquio intercorso tra il vescovo e un tal Girardo o Gerardo, presumibilmente capo di questa comunità di eretici, e con il conseguente invio delle truppe di Ariberto allo scopo di catturare quanti più eretici fosse possibile, e tra questi la contessa di quel castello, anch'essa fortemente eterodossa. Condotti a Milano, ai prigionieri fu lasciata la possibilità di rinnegare la propria fede e salvarsi dall'esecuzione, ma, a quanto si dice, la maggior parte scelse volontariamente il rogo.

Sarebbe a questo punto importante capire chi fossero realmente questi eretici, così pericolosi agli occhi della Chiesa. Questo duro attacco “inquisitoriale” precedette, con pochissimi altri sporadici casi, di quasi due secoli quella che sarà una vera guerra di religione, la cosiddetta Crociata contro gli Albigesi, o Catari, iniziata da Innocenzo III° nel XIII° secolo, i Catari, all'epoca non erano infatti ancora conosciuti come tali, ne tanto meno temuti. Abbiamo visto in precedenza che tutti i movimenti ereticali fino ad allora sviluppatisi venivano definiti genericamente Manichei, senza troppo preoccuparsi delle distinzioni dogmatiche. Perché allora un gruppo di abitanti di un borgo essenzialmente rurale, sottoposti al Vescovo di Asti, e quindi gerarchicamente all'Arcivescovo di Milano, ma distanti comunque da questi ben 150 km, persone che probabilmente per la loro peculiarità religiosa evitavano contrasti con i poteri vicini, furono oggetto di una così intransigente e severa repressione?

La risposta sta forse proprio nelle parole di Landolfo Seniore, quando descrive, seppur con un certo sentimento di parte, (non dimentichiamo infatti che il nostro era quasi sicuramente cronista al soldo dell'Arcivescovo) la dottrina esposta dall'eretico Gerardo in occasione dell'interrogatorio subito.

Alle prime domande rispose equivocamente, per far credere forse alla sua ortodossia, poi preso forse coraggio, incalzato da richieste di precisazioni, non esitò ad esporre nei particolari le sue credenze, caratterizzate da un’interpretazione essenzialmente spiritualista data alle Sacre Scritture, alla Trinità, al concetto di Spirito Santo (3). La comunità aveva poi alla sua testa un gruppo di "Maiores" (i Perfetti Catari?), e primo fra tutti, un pontefice, ovviamente non identificato in quello romano, che giorno per giorno visitava i fedeli; figura questa che può forse essere interpretata in modo simbolico, rappresentando esso lo Spirito Santo, che , donando la cognizione della scienza divina, libera l'uomo dalle sue colpe.Tutto ciò sembra pertanto escludere ogni nozione dei Sacramenti, di cui peraltro Gerardo rifiutò di parlare. Da tale spiritualismo deriva così un moralismo esasperato, un rifiuto della materia, della proprietà, di ogni istinto carnale. Inconfondibile nota distintiva di questa nuova eresia era l'accettazione di una morte violenta, colma di sofferenza, tale da portare, con la purificazione, alla salvezza. E' difficile capire se si può accostare tale concetto a quello dell' "Endura" catara, di cui parleremo in seguito, sta di fatto che tutta questa dottrina così fortemente innovativa e destabilizzante, non potè che creare timori sociali, oltre che religiosi, nelle autorità, consce del fatto che i nostri eretici, condotti a Milano, non esitavano a parlare alla popolazione, nella speranza di fare proseliti.

Se la maggior parte degli studiosi di movimenti ereticali sorvola sui reali motivi che portarono al rogo i nostri protocatari di Monforte, collegandoli alle vicende di Orlèans e di Arras, di cui abbiamo parlato, una suggestiva e molto intuitiva interpretazione ci viene dal romanzo di un giovane scrittore originario della zona, Maurizio Rosso, (4) narrazione che nasconde in realtà un vero saggio sull'argomento da noi trattato. La sua ipotesi è che la tragedia occorsa sia il frutto di una scelta militare/politica da parte dell'autorità predisposta al controllo della zona, scelta in cui i motivi religiosi spariscono del tutto.

Alla morte di Ottone III° e di Enrico II°, estinta, a capo del Sacro Romano Impero, la dinastia di Sassonia (1024), il potere passa nelle mani di Corrado II° il Salico, che tra il 1026 ed il 1027 scende in Italia per ricevere l'incoronazione dall'Arcivescovo Ariberto, con il proposito di recarsi quindi a Roma dal Pontefice. Ma sorge un problema, in quanto giunto ad Asti per continuare il suo viaggio verso Tortona e la Via Postumia dovrebbe passare in territorio ostile, controllato da Bonifacio di Canossa.

Molto meglio allora servirsi di una strada un po' particolare, di cui si è oggi persa ogni traccia, denominata da alcuni studiosi (5) "Via Magistra Langarum", che salendo da Alba sull'alta Langa, attraversandola per creste, scendeva poi in Liguria collegandosi alla Via Aurelia. Era un percorso sicuro, in territori controllati da Arcivescovi e nobili amici, ma con un solo peraltro piccolo intoppo: il castello di Monforte abitato dai nostri eretici, ovviamente considerati potenziali nemici. Si potrebbe così pensare che Ariberto ed Alrico, Vescovo di Asti, si siano per così dire premuniti, per evitare in anticipo ogni inconveniente.

Fu comunque una vicenda che in qualche modo fece scalpore, almeno a Milano, ove avvenne l'esecuzione, e lasciò il segno nel nome di un borgo della città (Borgo Monforte).


“Landulphi Senioris Mediolanensis Historia"

(2) Raoul Glaber, "Cinque libri di storia dei suoi tempi"

(3) Raoul Manselli, "L'Eresia del male" Ediz. Morano, Napoli 1963

(4) Maurizio Rosso, "Mons Fortis – Il castello dei Catari" Ediz. Gribaudo, Cavallermaggiore 1996

(5) Donato Bosca, "I paesi senza storia – costume e vita medioevale nella langa contadina" Ediz. Gribaudo, Cavallermaggiore


"Dicuntur Catari a cato" ... sono detti Catari da gatto

O.V. n.10, Novembre 2000 di Paolo Secco


Tutti i vari moti di contestazione della chiesa che nella prima metà del XII° secolo erano divampati in Europa si erano anche rapidamente spenti, sia perché forse troppo istintivi e tumultuosi, come quello dei Patarini a Milano, e comunque troppo circoscritti, sia per la mancanza di una vera dottrina alternativa da proporre e, molto spesso, per la pochezza di una ricerca teologica che potesse attirare gli spiriti più evoluti. Prima ancora però che questi moti sfiorissero, anche a causa della dura repressione, iniziò a serpeggiare per le terre d'Europa un nuovo tipo di contestazione, più radicale, più carica di significati, un rifiuto pressoché totale di tutta l'istituzione ecclesiastica, con i suoi valori e concetti. Aveva così inizio una nuova visione del cristianesimo. Non si trattò di una setta o di una elite intellettuale, ma di un movimento spontaneo, che affiorò contemporaneamente in punti diversi del continente, ove, spesso, le condizioni storico – sociali permettevano più libertà ed evoluzione di pensiero. Ne era fondamento una semplicissima e perfino banale constatazione: il mondo terreno appariva, ad un attento esame, il regno del male, dell'ingiustizia, delle sofferenze e della corruzione, non poteva pertanto essere evidentemente emanazione di un dio buono, ed era di conseguenza necessario rimanerne fuori, isolandosi nella pratica di retti principi morali, in attesa della liberazione, portata dalla morte. Come era avvenuto in passato per quasi tutti i movimenti eterodossi, dapprima i nuovi eretici furono scambiati per gli ormai noti manichei del passato, a causa di un preciso fondamento dualistico nella loro dottrina, che evidenziava nettamente il contrasto fra Bene e Male. Da tutti gli studi svolti non è peraltro risultata nessuna traccia o eredità evidente del pensiero della più antica eresia del IV° secolo. La nuova eresia si presentò, in modo ben documentato, almeno dal punto di vista delle fonti ecclesiastiche, a Bonn e Colonia nel 1144: l'abate Everwin di Steinfeld ne diede notizia al già famoso Bernardo di Chiaravalle, descrivendo tali eretici come pericolosi individui che rifiutavano qualsiasi sacramento, negavano in toto l'autorità della Chiesa e prendevano in considerazione come unica preghiera il Pater, ovviamente recitato in modo differente. Bernardo ricevette notizie di tal tenore anche da altre località; il vescovo di Beauvais denunciò infatti la presenza di simili eretici nella Francia meridionale. Bernardo si recò immediatamente sul posto ma a Tolosa ed a Albi si trovò ben presto a mal partito Di questo periodo parla anche uno dei primi testi che conforteranno e supporteranno in un futuro vicino le autorità ecclesiastiche nei processi inquisitoriali: il “Tractatus de haereticis” del frate Anselmo di Alessandria, scritto in epoca più tarda. Negli anni a seguire vennero denunciati ed infine condannati al rogo presunti eretici in grande quantità, nel 1147 a Perigueux nella Francia centrale, nel 1163 a Colonia, ove esisteva un gruppo proveniente forse dalle Fiandre, che dichiarò, nello svolgersi del processo, la propria qualità di “Buoni Cristiani”. Tale era la forza spirituale di questi uomini, e tale la loro coerenza, che non esitavano a contrastare, spesso in pubblico, i religiosi del luogo, spingendoli ad un dibattito serrato nel corso del quale a tutti diventava evidente la loro profonda conoscenza delle scritture e la grande dialettica. Ciò accadde ad esempio nel 1165 a Lombers, in Linguadoca, ove era riunito un sinodo di vescovi, alla presenza tra l'altro del Conte Raimondo di Tolosa, del Visconte Trencavel di Béziers, che già in questa occasione si dimostrarono perlomeno influenzati da queste nuove dottrine. In quegli anni, in vari processi, specialmente in Germania, questi eretici cominciarono ad essere denominati con quello che rimarrà poi definitivamente il loro nome: Catari. “Catharos, id est puros” (Catari, cioè puri) scriveva tra il 1152 e il 1156 Ecberto di Schonau nei suoi “Sermones adversus Catharorum errores”, rifacendosi ovviamente al relativo termine greco Katharos. Ma tra il basso clero, ignorante ed evidentemente poco ferrato negli studi classici, e tra le popolazioni, divenne d'uso un'interpretazione assai diversa. derivata da un'etimologia fantasiosa, ripresa poi, sul finire del secolo, dal frate Alano da Lilla: “Dicuntur Catari a cato” – sono detti Catari da gatto – in quanto si credevano, secondo le credenze popolari, ovviamente ben stimolate dal clero, usi baciare il posteriore del felino simbolo del diavolo, nel corso dei loro riti segreti. Sta di fatto che tale fu la loro diffusione e la loro fama che nella lingua tedesca il vocabolo Ketzer rimase ad indicare genericamente l'eretico, e Ketzerei l'eresia. In altri casi, come a Reims nel 1162, in occasione di un processo, compare il nome “Pobliciani”che ricorre altrove nella forma “Populiciani”. E' questa forse l'occasione per riconoscere i legami del Catarismo con un movimento religioso un po'più antico, ma allora ancora ben vivo nella Penisola Balcanica ed in Bulgaria. La parola Pobliciani sembra essere la corruzione di Pauliciani, nome di una setta sorta in Armenia nel VII° secolo, i cui adepti si autodefinivano Figli di Paolo, in quanto unici e veri continuatori del pensiero e dell'opera di Paolo di Tarso, il famoso San Paolo. Cacciati dall'Armenia si erano poi stabiliti in Tracia e da lì nei paesi vicini, dando vita, probabilmente, in Bulgaria, ad una loro emanazione: i Bogomili, così chiamati dal nome di un loro Pope, Bogomil. Anche costoro seguivano una sorta di dottrina dualistica, attribuendo a Satana la creazione del mondo terreno, visibile. Praticavano una vita ascetica ed un'opposizione dura al centralismo politico – religioso di Bisanzio. Erano stati per questo sovente perseguitati, dall'imperatrice Teodora, da Basiglio e da altri, ma ciò nonostante erano ancora presenti, in particolare in Bosnia, ove erano protetti dai potenti del luogo. La stretta parentela fra Catari e Bogomili è evidente se in effetti si paragonano le rispettive dottrine, ne è prova tra l'altro un vangelo bogomilo, portato dalla Bulgaria forse in Italia da un cataro attorno al 1190, e da qui finito poi in Linguadoca (1). Di massima importanza fu il primo grande concilio cataro che si tenne a Saint – Félix de Caraman, presso Tolosa, nel 1167, al quale partecipò in qualità di presidente dell'assemblea il Pope Bogomilo Niceta, che parlò a lungo della sua chiesa e dei rituali, influenzando in tal modo l'organizzazione futura delle chiese catare di Albi e d'Italia. Si possono pertanto riconoscere come importanti le affinità dottrinali e rituali fra le due eresie, ma bisogna tener conto che tali movimenti dualistici si sono sviluppati quasi contemporaneamente dal vicino Oriente fino alla Francia, e pertanto alcuni autori moderni, in particolare Anne Brenon (2), considerano la filiazione Bogomilo-Catara molto meno evidente di quanto sia apparsa in passato. Precisa la Brenon che “furono piuttosto sia gli uni (i Catari) che gli altri (i Bogomili) figli di un medesimo movimento storico, eredi senz'altro di un'unica tradizione”.


(1) “Interrogatio Johannis Apostolis” (Tribunale dell'Inquisizione, Tolosa).

(2) Anne Brenon, “Le vrai visage du Catharisme”, Toulouse, 1988. Trad.Italiana : “I Catari, storia e destino dei veri credenti” Ed. Convivio, 1991. Altri testi riportanti la questione: H. C. Puech, “Sul manicheismo e altri saggi” Ed. Einaudi, 1995, vedi capitolo “Catarismo medioevale e Bogomilismo”; Lidia Floss, “I Catari, gli eretici del male”, Ediz. Xenia, 1999; Grado G. Merlo, “Eretici ed eresie medievali” Ed. Il Mulino, 1989.


I casi di Pietro di Bruis e di Roccavione. Gli eretici e le montagne


O.V. n.2 , Febbraio 2002 di Paolo Secco


E’ a tutti noto che alcune valli delle Alpi occidentali hanno per secoli costituito rifugio per comunità e gruppi cristiani non cattolico–romani. In particolare le valli Pellice, Chisone e Germanasca hanno assunto nel tempo il nome di Valli Valdesi. Ma mentre per queste comunità è più facile portare avanti un discorso storico, per i gruppi eterodossi presenti nel resto delle Alpi occidentali ci si può riferire esclusivamente alle fonti originarie, quasi sempre di parte cattolica. In quasi tutte le fonti è difficile distinguere le differenze dottrinali fra i vari gruppi ereticali presenti sulle Alpi e nella pianura. Spesso con il nome di “Valdenses” vengono indicati gruppi diversi. Del resto, nell’esposizione della propria dottrina da parte di alcuni accusati nei processi inquisitoriali è ben evidente un vero e proprio sincretismo religioso. Ne è un esempio la vicenda svoltasi in Monforte, nelle Langhe, nei primi decenni dell’anno mille, che abbiamo ampiamente trattato in una puntata precedente.

Molti studiosi si sono occupati del passaggio attraverso le Alpi di gruppi o individui Albigesi in fuga dalla dura repressione nel sud occitano del XIII° secolo, in direzione della “Lombardia”, corrispondente a quei tempi all’ ovest della Pianura Padana. E’ noto come ancora nei secoli successivi il nord Italia fosse considerata terra di tolleranza religiosa: “In Lombardia non fit malum hereticis, iudeis et sarracenis” (1). Le Alpi, per dirla con le parole di Grado G. Merlo (2), furono relegate, da molti storici, al rango di accidente geografico, dal duplice volto di divisione e di protezione lungo itinerari i cui punti di partenza ed arrivo stavano altrove.

Rimangono comunque senza risposta una serie di domande: quando si diffonde l’eresia nelle Alpi? Con quali caratteri originari? Una prima fonte che merita un’attenta considerazione è il “Tractatus contra Petrobrusianos hereticos” di Pietro il Venerabile, famoso abate di Cluny, collocabile negli anni trenta del XII° secolo, quando ancora poco si parlava di Catarismo. In due lettere, che assumono appunto forma di trattato, indirizzate ai vescovi di Embrun, Die e Gap, l’abate cluniacense tenta di fornire uno strumento teologico–dottrinale per contrastare gli effetti della predicazione di un ex prete, Pietro di Bruis, che per decenni aveva portato in lungo ed in largo pericolose dottrine eterodosse. L’eretico, originario delle Hautes–Alpes, forse di un villaggio nei pressi di Rosans, aveva dapprima predicato nei luoghi di origine poi, cacciato a seguito di una dura repressione, aveva visitato la Provenza, arrivando con le sue teorie fino alle lontane terre di Guascogna, e varcando, secondo alcune fonti, anche le Alpi. Era finito poi sul rogo nei pressi di Saint Gilles, attorno al 1133 o, secondo alcune fonti, nel 1139. Resta il fatto che la zona di influenza delle idee petrobrusiane andava ben al di là della terra di origine, anche perché esse rappresentavano un bisogno di semplificazione, di ritorno al cristianesimo originario, una necessità di purezza ideologica e materiale presente nelle popolazioni di ogni regione. L’abate di Cluny lamentava che, essendo egli stesso transitato per la “Provincia Septimanie seu Alpium Maritimarum” si era accorto di persona di quanto ivi perdurasse “Erroneum Dogma”, nonostante l’espulsione dalla zona dei principali “auctores”. Pietro il Venerabile aveva dapprima pensato che l’influenza di tale dogma dipendesse principalmente dalla mentalità e dai costumi “agrestes et indocti” di uomini abituati a vivere isolati sulle montagne, fra boschi e valli sperdute, lontani, a suo dire, da ogni apporto culturale. Ma rendendosi poi conto con stupore che l’eretico in questione aveva lasciato il segno anche nella società più urbanizzata del midì francese, fu costretto a cambiare opinione e ad approfondire ciò che stava dietro alla predicazione dell’eretico frate..

Pietro di Bruis non fu Cataro, e nemmeno precursore del Valdismo, ma piuttosto fu l’esempio di quella chiesa spirituale conseguenza della riforma attuata nell’ XI° secolo; sta di fatto che in Delfinato, sulle Alpi, agli inizi del XII° secolo nacque un movimento eretico che non rimane esclusivamente locale. Nulla dice peraltro il “Liber contra Petrobrusianos” sulla propagazione di tale idee sul versante alpino piemontese, ma è facile individuare alcune sicure corrispondenze con posizioni culturali, liturgiche, dottrinali, espresse più tardi da alcuni eretici piemontesi nel corso di molti processi d’inquisizione. E’ possibile parlare pertanto di continuità? L’elemento comune sembra costituito da una religiosità scarna ed essenziale, che presuppone un rapporto diretto con Dio. Parliamo ora di alcuni dei pochissimi documenti che prendono in considerazione la circolazione ereticale nel periodo compreso fra la morte di Pietro di Bruis e la caduta di Montségur, nel 1244. Attorno agli anni ’60 - ’70 del ‘200, l’inquisitore Anselmo di Alessandria ricostruisce nel suo “Tractatus de hereticis” le origini del Catarismo in occidente, e, fra le tante notizie, riporta la vicenda di quattro milanesi che, attorno alla metà del XII° secolo, convertiti alla nuova fede da un “notarius de Francia”, vengono da questi inviati a Roccavione, ove i Catari erano venuti ad abitare direttamente dalla Francia. In effetti già all’epoca, ben prima della metà del XII° secolo, sono attestate violenze antieterodosse al di là delle Alpi, ed è pertanto possibile che molti fossero già allora in fuga alla ricerca di un posto tranquillo. Il nome di Roccavione risulta già documentato a quei tempi, il paese era d’altra parte situato alla confluenza di più vie di comunicazione, fra cui il Colle di Tenda (3). La località era facilmente raggiungibile, ed era oltretutto vicina a Cuneo, ove più tardi, attorno al 1240 – 1260, sono accertate presenze catare. Dal Tractatus sembra addirittura che all’epoca in Roccavione vivesse un “Episcopus”, che però al momento dell’arrivo dei milanesi si trovava in visita a Napoli, città ove i nuovi arrivati lo avrebbero presto raggiunto. Per alcuni storici (Borst, Manselli) la notizia è degna di fede, per altri invece (Dupré, Theseider) il racconto di Frate Anselmo presenta elementi leggendari, ancorché non inverosimili, ma soprattutto riflette una situazione posteriore.

(1) Registro di Inquisizione di Jaques Fournier, Vescovo di Pamiers . (1318 – 1325)
(2) Grado G. Merlo, “Eretici ed inquisitori nella società piemontese del ‘300” Torino, Ed. Claudiana,
(3) Comba Rinaldo, “Strade e mercati dell’area sud occidentale. Per una storia economica del Piemonte medievale” BSS. Torino, 1984.


“Ad explorandum ibi hereticos”. Eretici a Cuneo e Bernezzo tra ’200 e ’400


O.V n. 3, Marzo 2002 di Paolo Secco

“Queste nostre valli negli anni fra la fine del 1100 e la seconda metà del 1200 sono state teatro di una delle più grandi trasmigrazioni di perseguitati religiosi di tutto il medio evo.” Con queste parole Aldo Alessandro Mola, in un suo articolo, presenta la situazione della montagna occitana nel periodo in questione. I Catari qui arrivati non avevano ovviamente alcun minimo interesse a farsi notare troppo, il loro stile di vita rimase, per così dire, di basso profilo, cercarono anzi in molti casi l’integrazione con le popolazioni locali, facilitati anche dalla comunanza della lingua.

Più facile invece è trovare qualche notizia nelle città, ove l’attività delle autorità inquisitoriali fu sicuramente più vasta e documentata. Si legge fra l’altro di un certo Pietro di Beuila, di Avignone, a lungo vissuto nell’allora Lombardia, tornato a casa ed imprigionato nel 1278 che, sotto interrogatorio, racconta di aver abitato, trent’anni prima, per ben sette anni a Cuneo, ospite di correligionari, e di aver lì incontrato numerosi fedeli Catari provenienti da Tolosa, da Moissac e da altre zone devastate dai crociati. Fra questi un certo “Bertrandus de Avinione fugitivus”, che qui viveva proprio grazie ai denari avuti per l’occasione dai signori di Tolosa. Rientrava sicuramente nella politica della nobiltà della Francia meridionale coprire e finanziare i propri dissidenti, almeno quelli più conosciuti, favorendone il passaggio in terre meno pericolose, in modo da assicurare la continuità dell’idea centrale attorno alla quale si era da poco svolta la pagina più drammatica della storia delle province occitane, passate dalla squisita civiltà e cultura trobadorica agli orrori della guerra e al dominio della rozza e incolta nobiltà nordica.

Negli anni successivi alla presa di Montségur (1244), i fuggiaschi divengono un flusso continuo ed ampio, ricco di conseguenze sul piano politico-economico nello sviluppo dei comuni padani. Cuneo, sorta nel 1178 allo sbocco delle valli alpine, diviene fra il 1243 e il ’58 un centro attivo dell’eresia catara. Ricorre il nome di un tale “Aldricus, filius Raimundi de Caramano”, che afferma di essere venuto con alcuni compagni di fede ad “Achonium”, ovvero Coneum – Cuneo, per ripartire dopo poco tempo in direzione di Alessandria e di Pavia, da cui più tardi ritornò, sempre passando per Cuneo, in Occitania francese. Questa situazione di tolleranza è dovuta, sembra, alla protezione loro accordata dalla ricca borghesia locale, che vede di buon occhio i rapporti che i Catari intrattengono con altre città della pianura, e non solo per motivi economici, ma soprattutto per l’orientamento politico che alcune città della Padania rappresentavano.

Non è affatto casuale che mentre cresce il potere politico-economico della borghesia i Catari siano lasciati liberi di professare il loro culto, con l’unico limite della salvaguardia dell’ordine pubblico. Cuneo riveste a quei tempi la qualifica di libero comune, piccola Villa aperta ai rifugiati e ai dissidenti religiosi.(1). Nel 1258 i nuovi statuti cercano di limitare l’influenza in città dell’Abate di Borgo S. Dalmazzo: in pratica i Cuneesi decidono di rifiutare il pagamento delle decime, dei pedaggi e di tributi vari, sottraendosi così al potere del clero locale. Il Vescovo ovviamente non può che rispondere chiedendo soccorso, e dichiarando la città di Cuneo “ribelle”(2). Tutto ciò ebbe fine dopo il 1259, quando un trattato consegnò la città nelle mani di Carlo d’Angiò, marito di Beatrice, figlia di Raimondo Berengario di Provenza, che nell’Occitania francese, già martoriata dalla crociata contro gli Albigesi, si era distinto per la severità contro gli eretici di ogni tipo. Carlo d’Angiò riprese infatti poco dopo, nel 1264, prima di essere incoronato Re di Napoli dal Papa, le sue persecuzioni in Provenza e al di qua delle Alpi.

È forse in questo periodo che si può ipotizzare uno spostamento degli eretici sulle montagne, nelle valli più inaccessibili e meno esposte a visite degli uomini di chiesa. Il d’Angiò nel 1269 scrive al Papa chiedendo aiuti per gli inquisitori nelle terre di Francia e domanda che ne vengano mandati anche in “Lombardia”, tra cui Cuneo, “ad explorandum ibi hereticos”.

Carlo in realtà era fautore di uno stato sostanzialmente laico e autonomo. Non era pertanto interessato all’aspetto religioso della dissidenza, ma voleva evitare problemi con comunità troppo indipendenti.

In qualche caso gli eretici furono condannati e bruciati sui roghi solo quando rappresentavano un simbolo di libertà di fronte agli occhi di tutti. Negli altri casi invece moltissimi furono i Catari condannati a pene pecuniarie o all’esilio.

E’ questo il motivo per cui nei secoli successivi il Catarismo, nelle sue forme ed evoluzioni diverse, continuò comunque ad esistere, seppur nell’anonimato, nelle terre del cuneese. Circa due secoli dopo, infatti, verso i primi anni del ‘400, una comunità in cui esistevano eretici, Bernezzo, paga una pena di milleduecento fiorini, somma enorme per l’epoca, a Ludovico d’Acaja, in quanto “incolpabantur plures hereses facisse et plura mala contra fidem catholicam comisisse”(3).

Fra il 1441 ed il ’42 i frati inquisitori Bernardo Pietro e Lodovico Socino procedono di nuovo contro la comunità di Bernezzo: ventidue eretici considerati “relapsi”, ovvero recidivi, vengono trascinati a Cuneo e bruciati sul rogo. E’ da notare come vengano chiamati “Gazari”, sinonimo di Catari. I loro beni furono ovviamente confiscati, senza che però nulla ne venisse al comune di Cuneo, con gran dispetto dell’allora esattore Lorenzo Rabacino che su questa questione lasciò alcune annotazioni nei suoi resoconti ufficiali delle imposte (4). Capitò allora che gli abitanti di Bernezzo, sentendosi a torto o a ragione alquanto perseguitati, ricorressero alla protezione del papa Callisto III° contro gli inquisitori.

Gli Stati Generali del 1478 si pronunciarono violentemente contro le esagerazioni e la severità assurda di questi frati, chiedendo che si provvedesse affinché ad essi fosse sempre in futuro affiancato un certo numero di cittadini fidati, affinchè non venisse oltrepassato il limite del diritto vigente. Ciò permise comunque di lasciare nei secoli il segno di una cultura religiosa poco incline alle rigidità della dottrina ufficiale, ed aperta a futuri influssi di altre fedi eterodosse.

(1) A) Giuseppe Boffito Giuseppe, “Gli eretici di Cuneo” in BSBS n.VI°, 1896. B) Ferdinando Gabotto, “Roghi e vendette. Contributo alla storia della dissidenza religiosa in Piemonte prima della Riforma”, Pinerolo, 1898. C) Piero Camilla, “Cuneo 1198 – 1382” BSSSAA Provincia di Cuneo, Cuneo, 1970.

(2) Deliberazione del Capitolo dei Monaci. 14 IX 1258.

(3) “Erano stati incolpati di numerose manifestazioni ereticali e di aver commesso molte male-azioni contro la fede cattolica” Ne parlano Boffito e Gabotto (vedi nota 1) riferendosi ad un anonimo “Cronicon” della città di Cuneo.

(4) In quella che è considerata la prima cronaca di Cuneo l’avvenimento viene raccontato, senza alcun commento, da Giovanni Francesco Rebaccini (?), figlio forse di quel Lorenzo Rabacino, già citato, esattore all’epoca dei fatti.


Tholozan, Narbona, Catalenh, Pra’ de Boni... L’eresia nei toponimi delle Valli Occitane


O.V. n.4, Aprile 2002 di Paolo Secco


Dopo aver affrontato nelle puntate precedenti la presenza dell’eresia nelle nostre valli vogliamo ora parlare di quanto può essere rimasto di queste presenze nella memoria e nella cultura delle popolazioni locali, e di quanto può risultare da toponimi, nomi di famiglia, usanze. In mancanza di fonti scritte, sia ufficiali che di privati, dobbiamo però limitarci alle ipotesi, nella speranza che qualche lettore voglia intervenire con suggerimenti, nuove ipotesi o correzioni.

Il primo esempio che può in qualche modo far pensare alla presenza di Catari nelle nostre valli è il nome Tolosa, presente nei cognomi Tholosa, Tholozan, Tolosano, e, come toponimo, nel comune di Marmora (valle Maira), ove esiste una borgata Tolosano. Sappiamo che dopo la caduta di Montségur, nel 1244, molti linguadociani fuggirono dalle violenze della crociata. Molti dalle città si rifugiarono in località appartate, la maggior parte cercarono scampo in terre lontane, alcuni in Lombardia, come allora veniva denominata l’Italia settentrionale, ove preesistevano gruppi organizzati di eretici. E’ probabile che, nel lungo cammino, molte famiglie si siano fermate in località delle Alpi occidentali, dove le condizioni promettevano un futuro più tranquillo. D’altra parte i paesi ove compare il nome Tholosa o Tholozan sono vicini a valichi già frequentati all’epoca, come il Colle della Maddalena in valle Stura e quelli del Sautron e del Maurin in val Maira.

Errato sembra essere invece l’accostamento all’eresia del nome di una piccola borgata ormai disabitata della Valle Grana, Narbona, poiché il toponimo, nella parlata locale, risulta essere L’Arbouna, con tutt’altri riferimenti eccetto quello alla famosa città del sud occitano (1). Il nome locale è sicuramente più affidabile dal punto di vista della nostra indagine, e la trasformazione subita nell’italianizzazione potrebbe essere dovuta a semplice ricerca di semplificazione da parte di funzionari dello Stato.

Esiste peraltro un caso particolare di toponomastica che può attirare la nostra attenzione: in quel di Saliceto, paese dell’alta Langa ai confini dell’area piemontese con quella ligure, al di fuori comunque dell’area occitana, esiste una frazione denominata Catalani. Ho incontrato questa informazione leggendo un bel romanzo di uno scrittore locale, Guido Araldo (2), che di questa frazione è originario. Da Araldo ho potuto appurare che la denominazione locale è Cataran, che può far pensare a presenze Catare, e fu italianizzata in Catalani, a suo dire, da geografi fiorentini incaricati di registrare la toponomastica locale. Esiste peraltro, proprio nella zona del paese, una montagna il cui nome, non citato sulle carte, è Jan Pèire, denominazione che poco ha a che vedere con l’area culturale linguistica piemontese-ligure della zona, e che pertanto si potrebbe pensare come importata. E’ facile a questo punto pensare all’insediamento di eretici provenienti dall’Oc-citania, ma resta difficile capire, senza documentate fonti storiche, come questi si siano insediati proprio in una località molto vicina ad una grande via di comunicazione dell’epoca, la Via Magistra Langarum di cui già abbiamo parlato (3), frequentata fra l’altro anche per pellegrinaggi, con il pericolo di essere scoperti. Sembra peraltro documentato l’arrivo nel porto di Oneglia (Imperia), nel periodo successivo alla crociata contro gli Albigesi, di profughi forse Catalani, probabilmente Catari. E’ però opportuno in questo caso usare la massima cautela nel dare un senso storico alla vicenda.

Una situazione quasi identica si presenta nella zona di Boves, ove esiste una borgata Catalenh (4). Anche in questo caso non si hanno notizie né memorie recenti. Ovviamente non ha molto senso parlare di presenze Catalane nella zona. Pure qui ogni ipotesi è aperta. Per non allontanarci troppo, problema simile è stato posto in un recente libro sulla Bisalta (5) in cui viene fatto un esaustivo esame della cultura, della storia, della fauna e della flora nelle valli attorno a questa imponente montagna. Tomaso Cavallo, di origine peveragnese, in un breve capitolo dedicato a Pradeboni, arrischia un’ipotesi sull’origine del paese: Pra’ de Boni, non può essere sicuramente fatto risalire alla fertilità o alla bontà dei terreni, fa piuttosto pensare a dei “Boni” intesi come famiglia, o a un qualche gruppo di Boni Homines medioevali, ovvero, guarda caso, ai nostri amici Catari. L’autore sa benissimo di fare una congettura assolutamente azzardata, ma d’altra parte, quando le fonti storiche non supportano, è bello usare la fantasia, con la dovuta consapevolezza, immaginandoci lontane origini. Anche qui siamo vicini ad una via importante di comunicazione, il Col di Tenda, ma nello stesso tempo siamo appartati e nascosti dalle pendici della Bisalta. Tutto sarebbe perfetto (scusatemi l’involontaria ironia!) se non fosse che l’area di Pradeboni quasi sicuramente all’epoca era sotto l’influenza, se non di proprietà, della Certosa di Pesio, fondata nel 1173 con una donazione dei consignori di Morozzo ai frati certosini. Del resto la Valle Pesio e le zone vicine sono forse le uniche in cui non si ha traccia documentata di presenze ereticali nel periodo che va dal XII° al XIV° secolo, e i roghi di cui si hanno notizie in Peveragno nel XIV° secolo e nel seguente si riferiscono probabilmente a gruppi di origine valdese.

Facciamo ora un balzo verso Bellino, in Val Varaita. Un libro non recente di Jean Luc Bernard (6) analizza, fra i molti altri aspetti della cultura del paese, l’aspetto religioso nella vita della comunità. Contrariamente ai montanari delle valli vicine, i Bellinesi non conoscevano l’allevamento del maiale, e non utilizzavano, se non eccezionalmente, prodotti di origine animale, ad eccezione del latte. Non sembra essere un aspetto dettato dalla povertà, quanto piuttosto una vera e propria forma di alimentazione vegetariana. Non erano inoltre conosciuti procedimenti di concia delle pelli, né di conservazione della carne. Alcuni atteggiamenti nella vita di tutti i giorni sembravano rifarsi in effetti, anche se molto alla lontana, alla cultura dualistica dei Catari; mi riferisco, sempre seguendo le orme del Bernard, all’estrema discrezione delle donne in stato interessante, alla concezione fatalistica nell’accettazione delle avversità, anche le più dure. Viene da pensare all’atteggiamento della cultura catara, ove l’individuo si sentiva in balìa di Dio, o meglio del Diavolo, ma con una sorta di forza interna, dovuta alla consapevolezza di essere in qualche modo privilegiato, in quanto comunque consapevole delle proprie possibilità di salvezza. Sono tutti piccoli particolari, insignificanti forse di per sé, ma importanti se considerati nel loro insieme. Il primo parroco a Blins sembra esser arrivato attorno al 1380. Che ne è, dal punto di vista religioso, dell’epoca precedente?

(1) Novel Temp n°18, R. Lombardo, “Appunti sulla peculiarità del dialetto occitano di L’Arbouna”

(2) Guido Araldo, “Prèscricia – La pietra scritta” Editoriale Le Stelle, Millesimo, 2000.

(3) Ousitanio Vivo n°249, ottobre 2000, “Gli eretici di casa nostra: Monforte”

(4) Fonte: Fausto Giuliano di Boves/Rivoira.

(5) Tomaso Cavallo, “Pradeboni, rifugio dei Catari” in: “Bisalta, una grande montagna” AAVV a cura di N. Villani, Ediz. Primalpe – Blu, Peveragno 2000, pagg. 70-71.

(6) Jean Luc Bernard, “Nosto modo – Testimonianze di civiltà Provenzale Alpina a Blins” Ediz. Coumboscuro, Busca, 1992.

Quaderni C.I.P.E.C.


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1976-1992. Appunti sui partiti politici nel cuneese (Sergio Dalmasso)


n. 18, novembre 2000

Comunisti a Mondovì: Mario Giaccone, Concetta Giugia.

Il secondo "biennio rosso" (Sergio Dalmasso)

Il sessantotto a Cuneo (Sergio Dalmasso)


n. 19, aprile 2002

Il Novecento nella storiografia di fine secolo (Sergio Dalmasso,

Luigi Bertone, Michele Girardo)

Dino Giacosa: la coerenza (Sergio Dalmasso)

Riformismo e riforme nella sinistra italiana (Sergio Dalmasso)

I partiti socialisti, il centro- sinistra, la pianificazione nella

lettura della rivista "Questitalia" (Sergio Dalmasso)


n. 20, aprile 2002

Dalla Bolognina a Pristina: Cronologia di articoli su una resa:

29 ottobre 1998 - 29 maggio 2000 (Beppe Nicola)

Ricordi di Maria Teresa Rossi e di Franco Camicia (Sergio Dalmasso)


n. 21, maggio 2002

1958- 1976. I rossi nella "Granda". La sinistra in provincia di Cuneo

(Sergio Dalmasso): Seconda edizione con breve appendice.


n. 22, agosto 2002

La carovana di Lotta Continua e l'"eterno" problema dell'organizzazione

(Diego Giachetti)

Le sofferenze del PCI torinese negli anni dei governi di unità nazionale

(Ida Frangella e Diego Giachetti)


n. 23, novembre 2002

Le vicende elettorali delle forze politiche cuneesi (1945/2001)

Tabelle, grafici, saggi introduttivi di Felice Paolo Maero e Sergio Dalmasso


n. 24, gennaio 2003

Convegno Antisemitismo, razzismo, nuove destre (Luca Sossella, Luigi Urettini,

Sergio Dalmasso, Saverio Ferrari)

Un altro comunismo? (Sergio Dalmasso)

Unificazione europea? (Francesco Lamensa)

n. 25, febbraio 2003

Comunisti a Mondovì. In ricordo di Concetta Giugia Giaccone.

Lelio Basso nella storia del socialismo italiano (Luciano Della Mea, Rocco Cerrato, Sergio

Dalmasso, Piero Basso)

Rifondare è difficile. Rifondazione Comunista dallo scioglimento del PCI al “movimento dei

movimenti” di Sergio Dalmasso: recensioni, schede, segnalazioni.


n. 26, giugno 2003

La nuova sinistra italiana e la guerra di guerriglia durante gli anni ’60 (Aldina Trombini)


n. 27, gennaio 2004

Comunisti/e a Boves (Bartolomeo Giuliano, Edda Arniani, Carmelo Manduca, Giovanni “Spartaco”

Ghinamo) a cura di Sergio Dalmasso.


n. 28, febbraio 2004

Alberto Manna, Consigliere provinciale. Interventi al Consiglio provinciale di Cuneo (1995-1999)


n. 29, giugno 2005

Come era bella la mia Quarta (Silvio Paolicchi)

Ancora su foibe, fascismo antifascismo (Gianni Alasia)

Piccole storie dentro una grande storia (Enrico Rossi)

I miei amici cantautori (Sergio Dalmasso)


n. 30, ottobre 2005

Rifondare è difficile. Rifondazione Comunista dallo scioglimento del PCI al “movimento dei

movimenti” (Sergio Dalmasso)


n. 31 novembre 2005

Ristampa quaderno n. 7 Per ricordare Michele Risso, Atti del convegno, Boves, 1 marzo 1996 (Luigi Pellegrino, Sergio Dalmasso, Agostino Pirella, Franca Ongaro Basaglia, Pietro Ingrao, Gianna Tangolo, Regina Chiecchio)


n. 32 marzo 2006

Appunti sul Socialismo Italiano. a cura di Sergio Dalmasso


n. 33 settembre 2006

Comunisti/e a Boves. a cura di Sergio Dalmasso


n. 34 gennaio 2007

La Lega Nord nel Cuneese. a cura di Sergio Dalmasso e Fabio Dalmasso


n. 35 febbraio 2007

Gianni Alasia

a cura di Sergio Dalmasso, Vittorio Rieser, Fabio Dalmasso, Claudio Vaccaneo


n. 36 maggio 2007

Michele Risso: scritti e bibliografia.. a cura di Sergio Dalmasso.


CIPEC ATTIVITA’

Anno 1986-1987

Ciclo: "Marxismo oggi":

- Marx oggi (Gian Mario Bravo)

- Il marxismo nella Terza Internazionale (Aldo Agosti)

- Per una ricostruzione del pensiero marxista (Costanzo Preve)

- Il proletariato in Marx (Cesare Pianciola)

- Il pensiero di Bloch (Laura Boela)


Anno 1988-1989

Ciclo: "Le rivoluzioni del '900":

- Rivoluzione francese (Costanzo Preve)

- Rivoluzione sovietica (Massimo Bontempelli)

- Rosa Luxemburg (Cosimo Scarinzi)

- Stalin, Trotskij, Bucharin, Togliatti (Antonio Moscato, Marco Rizzo)

- Rivoluzione cinese (Edoarda Masi)

- Rivoluzione cubana (Enrico Luzzati)

- La Palestina (Guido Valabrega)


Anno 1989-1990

continuazione del Ciclo:

- I paesi dell'est (Guido Valabrega)

- Il Sudafrica (Edgardo Pellegrini)


Anno 1990-1991

Ciclo: "Marxismo e...":

- Marxismo e femminismo (Nadia Casadei)

- Marxismo e libertà (Ludovico Geymonat)

- Marxismo e ecologia (Tiziano Bagarolo)

- Marxismo e economia (Riccardo Bellofiore)

- Marxismo e religione (Emanuele Paschetto)

- Marxismo e psiconalisi (Mario Spinella)

- Marxismo e nonviolenza (Enrico Peyretti)


Anno 1991-1992

Ciclo: "500 anni bastano":

- La storia della conquista (Franco Surdich)

- Il popolo Mapuche - Cile (Nelly Ayenao)

- Gli indiani del nord (Nayla Clerici)

- La Chiesa in America Latina (Giulio Girardi)


Anno 1992-1993

continuazione del Ciclo:

- Nord/Sud del mondo e il debito (Gerson Guymaraes)

- L'ambiente e la conferenza di Rio (Carlo Daghino)

- Proiezione video sugli incidenti razziali a Los Angeles

- Che Guevara (Gianluca Giachery e Sergio Dalmasso)

- Marxismo e nazionalità (Renato Monteleone)

- Ricordo di Ludovico Geymonat, filosofo della libertà (Fabio Minazzi)


Anno 1993-1994

Ciclo: "Marx oggi": - Il marxismo in Italia (Costanzo Preve)

- Il marxismo nel terzo mondo (Enrica Collotti Pischel)

- Marxismo oggi (Romano Madera)

Ciclo: "Storia della psicoanalisi"

- Freud (Alberto Camisassa)

- Jung (Giorgio Raimondi)

- Adler (Adriana Roatti Garzillo)

- Reich (Beppe Corona e Giorgina Lerda)

- Teorie freudiane e pratica terapeutica (Angelo Mondini)

- La micropsicoanalisi (Liliana Zonta)

Anno 1994-1995

Ciclo: "Analisi e terapie":

- Gestalt (Mario Frusi)

- Comportamentismo (Aldo Lamberto)

- Analisi sistematica (Massimo Schinco)

- Terapia del contatto (Luciano Jolly)

- Terapia del movimento (Elide Bono)

- Psicodramma (Giorgio Raimondi)

Fuori ciclo:

- La nuova sinistra: per un bilancio storico politico (Marco Revelli, Paolo Ferrero, Oscar Mazzoleni, Sergio Dalmasso)


Anno 1995-1996

Leone Trotsjij, un fantasma nella storia (Gigi Viglino)

- Storia, geografa, economia davanti ai problemi globali del mondo (Manlio Dinucci)

- Psichiatria democratica (Agostino Pirella, Paolo Henry)

- Per ricordare Michele Risso (Agostino Pirella)


Anno 1996-1997

- Guevara e l'America latina (Antonio Moscato) - Il caso Sofri-Calabresi, Lotta Continua (Ennio Pattoglio, Sergio Dalmasso)

- Democrazia Proletaria, "Camminare eretti" (Giannino Marzola)

- Lelio Basso nel socialismo italiano (Sergio Dalmasso)

- Storia critica della repubblica (Enzo Santarelli)

- Riviste a sinistra (Marco Scavino)

- Salute mentale e superamento dei manicomi (Agostino Pirella)


Anno 1997-1998

Il Che, 30 anni dopo (Antonio Moscato)

La rivoluzione Sovietica (Roberto Preve)

La globalizzazione (Franco Turigliatto, Raffaello Renzacci)

Una scelta di vita (Eugenio Melandri)

Il Perù e l'America latina (Isaac Velasco)

Il lavoro minorile (Carlo Daghino

Il caso Sofri (Fabio Levi)

Il Chiapas oggi (Luigi Urettini, Chiara Vergano)


Ciclo: "Immagini dell'uomo":

- Rapporto terapeuta/paziente

- Rapporto genitori/figli

- Rapporto uomo/donna


Anno 1998-1999

Kurdistan (Laura Schrader, Hasti Fatah)

La rivoluzione non violenta dei Sem Terra (Nadia Demond, Michelangelo Ramero)


Ciclo: "Quanto vuoi?":

- Prostituzione e immigrazione (Fredo Olivero)

- Aspetti antropologici della prostituzione (Giancarlo Ferrero)

- Prostituta e cliente (Franco Barbero, Carla Corso)


Ocalan libero (Laura Schrader, Hasti Fatah)

Guerra e democrazia (Raniero La Valle)

Nodi storici e religiosi nei Balcani (mons. Diego Bona, Luigi Cortesi)

"Attraverso il filo", il caso Silvia Baraldini (Maurizio Buzzini)


Anno 1999-2000

Ciclo: "100 anni di psicoanalisi":

- Analista - cliente

- Le età

- Psicoanalisi e sessualità

- Marxismo ed ecologia, Ecofemminismo (Tiziano Bagarolo, Antonella Visintin)

- La globalizzazione in America latina (Marina Ponti)

- Il viaggio del Che in America latina (Antonio Moscato)

- Presentazione del libro: Siamo solo noi, Vasco Rossi (Diego Giachetti)

- Quale carcere? (Beppe Manfredi, don Elvio Davoli)

- Presentazione "Rivista del Manifesto" (Giancarlo Aresta)

- Presentazione rivista "Carta" (Marco Revelli)

Convegno “1968-1969, il biennio rosso” (Luigi Urettini, Sergio Dalmasso, Diego Giachetti, Carla Pagliero, Franco Bagnis, Fabio Panero, Vittorio Bellavite, Carlo Carlevaris, Mario Cordero, Roberto Niccolai, Marco Scavino, Vittorio Rieser, Carlo Marletti)

Ciclo Datemi una barca (Scuola di pace di Boves):

- Giubileo e debito internazionale (Giulio Girardi)

- Il sistema globale (Manlio Dinucci)

- Teologia della liberazione e diritti umani (Josè Ramos Regidor)

- I movimenti rivoluzionari in America latina (Antonio Moscato)


Anno 2000-2001

- Sinistra alternativa, plurale, sociale? (Marco Prina, Gianna Tangolo, Alfredo Salsano, Fulvio Perini)

- I rossi nella Granda (Mario Borgna, Alberto Cipellini, Sergio Dalmasso)

- Convegno: "Gli anni '70" (Marco Scavino, Sergio Dalmasso, Vittorio Bellavite, Diego Giachetti,

Diego Novelli, Mario Renosio, Carla Pagliero, Gigi Malaroda, Pina Sardella, Nicoletta Giorda)

- Convegno: "Razzismo, antisemitismo, nuova destra" (Luigi Urettini, Moni Ovadia, Saverio Ferrari, Guido Caldiron, Remo Schellino, Mario Renosio, Sergio Dalmasso)

Ciclo Gli esclusi (Scuola di pace di Boves)

- La conquista dell'America dalla parte dei vinti (Giulio Girardi)

- Fabrizio De Andrè, cantante degli umili (Romano Giuffrida)

- I nostri amici cantautori (concerto)


Anno 2001-2002

- Presentazione del libro “Rifondare è difficile” di Sergio Dalmasso (Gastone Cottino)

- Convegno "Cosa resterà di questi anni '80?" (Diego Berra, Sergio Dalmasso, Claudio Mondino, Marinella Morini, Fulvio Perini, Lucio Magri, Marco Revelli, Lidia Cirillo, Diego Giachetti, Carla Pagliero).

- La crisi argentina (Antonio Moscato)

Ciclo "Gli esclusi" (Scuola di pace di Boves)

- La canzone popolare (Fausto Amodei)

- Un altro comunismo: Leone Trotskij, Rosa Luxemburg (Antonio Moscato)

- La Palestina (esponente dell'OLP)


Anno 2002-2003

- Globalizzazione ed economia (Nerio Nesi)

- Sindacato e movimenti dopo Firenze (Mario Agostinelli)

Convegno "Vent'anni della Scuola di pace di Boves"

- La marcia delle donne (Nicoletta Pirotta)

- L'alternativa al liberismo e al terrorismo (Giulio Girardi)

- Vent'anni di storia, vent'anni di guerre (Luigi Cortesi)

- Ernesto Balducci, Gunther Anders e il pacifismo di oggi (Enzo Mazzi, Luigi Cortesi)

- Convegno "1945/1948: gli anni della ricostruzione" (Sergio Dalmasso, Marinella Morini, Martino Pellegrino, Laurana Lajolo, Elena Cometti, Fabio Panero, Claudio Biancani, Michele Calandri, Paolo Perlo, Carla Pagliero, Sofia Giardino)


Anno 2004-2005

- Ciao Raffaello, in ricordo di Raffaello Renzacci (Giorgio Cremaschi, Fulvio Perini, Franco Turigliatto, Rocco Papandrea, Sergio Dalmasso).

- Liberalismo e liberismo (Sergio Dalmasso).

- Comunismo, marxismi, democrazia (Sergio Dalmasso).

- Riccardo Lombardi, per una società diversamente ricca (Nerio Nesi, Giancarlo Boselli, Sergio Dalmasso).

- Rosa Luxemburg (Sergio Dalmasso).

- Convegno “Gli anni ’60” (Daniela Bernagozzi, Carla Pagliero, Diego Giachetti, Marinella Morini, Sofia Giardino, Chiara Rota, Giuliano Martignetti).


Anno 2005-2006

- La stagione dei movimenti (Sergio Dalmasso).

- La questione palestinese (Cinzia Nachira)

- Film: Noi non abbiamo vinto? (Gianni Sartorio, Giampiero Leo, Sergio Dalmasso)


Anno 2006-2007

- 1956: l’invasione dell’Ungheria (Mario Martini, Gianni Alasia, Sergio Dalmasso)

- Comunisti/e a Boves (Nello Pacifico, Sergio Dalmasso)

Anno 2006-2007

- “40 anni senza il Che” (Antonio Moscato, Giacomo Divizia, Sergio Dalmasso)




1 Per il sociologo tedesco Ferdìnand Tonnies (1855-1936) Gemeindschaft è sinonimo di organizzazione sociale di tipo comunitario di società vissuta come "comunità di destino"; in contrapposizione alla Gesellschaft, una società in cui gli individui hanno rapporti di tipo utilitaristico. Ne scriveva nel suo Gemeinschaft und Gesellschaft (1897), trad. F. Tonnies, Comunità e società, ed. Comunità, Milano 1963.

2 Cfr, Corrado Mornese Eresia Dolciniana e resistenza montanara, DeriveApprodi ed. Roma 2004; ldem, Eresia e montagna contro ortodossia e pianura. L'eretico Dolcino e lo. resistenza della Valsesia 1305-1307, in Achtung Banditen, Contadini e montanari tra banditismo, ribellismo e resistenze dall'antichità ad oggi, "Istituto Storico della Resistenza e della Società contemporanea" Novara, e "Centro Studi Doleiniani", ed . Millenia, Novara, 2004, pp. 33-46;

Tavo Burat, L'anarchia cristiana di fra Dolcino e Margherita, Leone e Griffa ed. Pollone-Biella, 2002.

3 Cfr. Gustavo Buratti, Diritto pubblico del Canton Grigioni, ed. Cisalpina, Milano-Varese 1959. Cenni moderni sulle vicìnie, anche in L'Alpe e la Terra, i bandi campestri biellesi nei secoli XVI - XIX, contributi di Gian Savino Pene Vidari (Aspetti storico giuridici) e di Marco Neiretti (Aspetti economici), a cura di Luigi Spina, Provincia di Biella ed., Biella 1997.

4 Su Aurelio Turcotti: Tavo Burat, Le intuizioni di un profeta sconosciuto, in "Riforma", anno XlI, n° 11 (12-03-2004), p. 5; ldem, Aurelio Turcotti, eretico valsesiano, autonomista e federalista, né "L'impegno", a. XXIV n° 2 (dicembre 2004) pp. 121 - 128.

5 Cfr. G. Cìola - A. Colla - C. Mutti - T. Mudry, Rivolte e guerre contadine, Soc. ed. Barbarossa, Milano 1994

6 Cfr. Piero Vanesia, Il Tuchinaggio in Canavese ( 1386 – 1391), Società accademica di storia Canavesana, Ivrea, 1979; sulle "Badie": G.C Pola Falletti - Villafalletto, Associazioni Giovanili e feste antiche, Vl. 1°, Torino, 1979 (in particolare alle pp. 71, 208, 468 e 55, 473, 480), Tavo Burat, Il Tuchinaggio occitano e piemontese, in Banditi e ribelli dimenticati. Storie di irriducibili al futuro che viene, a cura di Corrado Mornese - Gustavo Buratti, Lampi di Stampa ed., Milano 2006.

7 Cfr. Gustavo Buratti, Decolonizzare le Alpi, in Autori vari, Prospettive di vita dell'arco alpino. Interventi di uomini di studio e d'esperienza del passato, il presente e il futuro delle Alpi, Jaca Book, Milano 1981 pp. 64 - 80; in appendice la Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine 19-12-1943. Si tratta della cosiddetta "Carta di Chivasso", con la quale quattro esponenti della Resistenza delle Valli valdesi e due valdostani, tra i quali Emile Chanoux che ne fu l'ispiratore, preconizzavano per le vallate alpine autonomie politiche, amministrative, culturali e scolastiche, anticipando di un trentennio la filosofia e le istanze poi elaborate da Gary Snyder, Kirkpatrick Sale e dagli altri bioregionalisti.

8 Cfr. Daniel Nettle - Suzanne Romaine, Voci del Silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di estinzione, Carocci ed., Roma 2001

9 Si veda per esempio la vicenda del montanaro grigionese Marco Camenisch, condannato per ecoterrorismo, narrata, come in autobiografia, a cura di Piero Tognoli, Achtung Banditen! Marco Camenisch e l'ecologismo radicale, Nautilus, Torino, 2004; e a cura di C. Mornese e G. Buratti, Banditi e ribelli dimenticati, cit.

10 Ferdinand Ramuz, Farinet ou la fausse monnaye (1932) riedito a cura degli "amis de Ramuz" e dagli "Amis de Farinet", Rezè (Francia), 1999. Sul personaggio storico Samuel Farinet (1845 - 1880) si veda la prefazione di Pascal Thurre a Farinet, citato; in italiano: Tavo Burat; Il Robin Hood delle alpi vive ancora. La leggenda di Samuel Farinet il fabbro e liutaio, invita alla libertà ed alla fraternità, in "Riforma" a XIII n° 18 (13.5.2005) e Corrado Mornese, Farinet il falsario dal grande cuore, in Banditi e ribelli dimenticati, cit. p. 131 - 134 e 338 - 342. In un altro racconto, La guerre des papers, Ramuz narra la vicenda di una comunità montana insorta contro la burocrazia metropolitana conservatrice e oppressiva.

11 Carlo Sgorlon, L'ultima valle (Romanzo), ed, Oscar Mondatori, Milano 1989 pp. 54-55 e introduzione di Carlo Toscani pp. 5-13: a pag, 40 rievoca il "sacro macello" compiuta dall'inquisizione in una valle (nella realtà a Teglio in Valtellina) quando "si era diffusa l'Eresia dello Spirito Santo predicata da un artigiano e tutta lo popolazione della vallata gli era andata dietro con passione" (v. pure a p. 49). Altrove la "simpatia ereticale" di Sgorlon riappare quando rievoca l'eresia di Domenico Scandella, detto Menocchio, un mugnaio della Valcellina (Friuli) messo al rogo nel 1599, la cui vicenda è stata compiutamente studiata da Carlo Ginzburg (Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500, Einaudi, Torino 1999). C.F Ramuz aveva narrato una psicosi simile all'Ultima valle nel suo romanzo La grande peur dans la montagne (1926). I romanzi di Ramuz sono stati editi anche in italiano dalla Jaka Book, Milano.

12 Prima lettera di Dolcino e Margherita ai Valsusini in lotta, www.socialpress.it.

13 Si veda in proposito la lettera dell'eurodeputato Vittorio Agnoletto, Quei ripensamenfi sulla TAV, lettera al "Corriere della sera", 12. X. 2006, p. 53, Sul "No Tav": Alleanza per l’opposizione a tutte le nocività, Treni ad alta nocività: Perchè il treno ad alta velocità è un danno individuale un flagello collettivo, Nautilus, 1993 e 2006; Antonio G. Calafati, Dove sono le ragioni del si? La TAV in Val Susa nella società della conoscenza, Seb 27, Torino, 2006.

14 "La Stampa", 7.12.2005.

15 Andrè Malraux (1901 - 1976) grande scrittore e uomo politico francese, archeologo e specialista del sanscrito, collaboratore della resistenza anticolonialista (e quindi antifrancese) in Indocina, poi combattente "rosso" e ferito nella guerra di Spagna, esponente della Resistenza, internato nei campi di concentramento nazisti da cui riuscì ad evadere per riprendere la lotta, è autore di romanzi che escludono gli elementi individualisti consueti alla narrativa tradizionale per poggiare invece sul motivo assoluto della aventure, dell'azione sollecitata da una volontà imperiosa, in cui l'eroe ritrova la coscienza della solidarietà umana: i suoi numerosi romanzi (1921-1949) sono raccolti in volume unico, La voix du silente (1951).